Ombre e uomini: l’indifferenza e la resilienza

Resilienza

Sentii questo termine, per la prima volta, in riferimento ai reduci di Auschwitz, Birkenau, Mauthausen: i bambini reduci dai campi di concentramento hanno sviluppato la resilienza.

L’affermazione non mi convinceva: io lavoravo in scuole di frontiera in cui i bambini assistevano a violenze quotidiane. Vedevo resilienza? No, rabbia ed estrema deriva. Ora, per quanto la vita in periferia sia dura, di certo ad Auschwitz fu peggiore.

Per anni mi sono interrogata a proposito di questo

misterioso termine: resilienza.

Ma che cos’è la resilienza? Si tratta della capacità di un materiale di assorbire un urto senza rompersi.  La proprietà di un materiale, appunto. E per quanto gli Ebrei fossero considerati materiali e non umani, erano uomini.

E diventarono ombre.

Il dizionario però indica un altro utilizzo di questa parola: in psicologia è la capacità di un individuo di affrontare e superare un evento traumatico in maniera positiva.

D’istinto pensai a Primo Levi che scrisse, testimoniò e si uccise. Si uccise a sessantasette anni, quattro mesi prima c’era stato il tentativo del revisionismo storico di rendere innocente la Germania.

Primo Levi aveva da poco pubblicato “Sommersi e salvati“: neppure il grido affidato alla scrittura lo aveva reso resiliente, neppure il figlio.

Mi domandai quanto sarebbe stata resiliente Anna Frank se non fosse morta di tifo, pensai a romanzi durissimi quali “La scelta di Sofia” e a “Sono un assassino?” di Calel Perechodnik:

Chiedo a tutto il mondo democratico di vendicare i nostri bambini e le nostre donne morti a Treblinka. Noi, ebrei maschi, non valiamo tanto da essere vendicati! Siamo caduti per nostra colpa e non sul campo della gloria.

Quando leggo queste testimonianze non trovo tracce di resilienza ma di sofferenza.

Indifferenza

Ogni dubbio in proposito me lo ha tolto Liliana Segre, ospite ieri di Enrico Mentana.

Un’intervista agghiacciante e commuovente che non lascia spazio alle giustificazioni; mio marito e io restiamo incollati al video rapiti da quello sguardo: rabbia.

Non la rabbia distruttiva di chi è a disagio, la rabbia pura di chi sa di non poter perdonare.

Liliana Segre racconta tre passaggi fondamentali della sua esperienza:

  • l’espulsione da scuola e l’indifferenza della maestra;
  • l’esperienza del lager e la tangibilità del male assoluto;
  • l’indifferenza delle persone al suo ritorno nel mondo dei vivi.

La senatrice racconta come le persone non la volessero ascoltare, come mettessero sullo stesso piano le loro esperienze tragiche ma non devastanti, come tutto fosse giustificabile perché tutto sommato c’erano state una guerra e una dittatura:

 

Per cui la Segre non fu resiliente, semplicemente non aveva parlato degli orrori visti. E come lei chissà quanti! La donna dice di non aver visto l’orrore estremo, quello delle camere a gas, quello che non può essere raccontato perché mancano le vittime. Ne “La banalità del male” vi è qualche traccia di testimonianza dei carnefici ma, da parte di questi ultimi, vi è anche la presunzione che, se la guerra fosse stata vinta dai nazisti, l’olocausto sarebbe stato giusto.

Dunque la giustizia e l’etica non contano: ha ragione chi vince.

E chi vince e comanda riesce a imporre il suo pensiero grazie all’indifferenza degli altri.

Ciò ha reso possibile la presenza di lager per civili ceceni accusati di terrorismo e degli attuali campi in Libia.

In tempi non sospetti, Hitler dichiarò:

Se il mondo non si è accorto del massacro degli Armeni, perché dovrebbe intervenire sulla Germania che risolve la questione ebraica?

Probabilmente Minniti e Salvini pensano che se il mondo non si è accorto di quanto è avvenuto in passato, perché dovrebbe accorgersi di ciò che accade a due ne(g)ri?

La nostra indifferenza è complice degli stupri e delle morti nel Mediterraneo. Non ce ne accorgiamo e, così, condanniamo.

Rosa Johanna Pintus

 

 

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