Sandwich non è soltanto una jeanseria ma rappresenta, per le generazioni del ponente genovese, il rito di passaggio tra l’infanzia e l’adolescenza.
I ragazzini, specie tra la prima e la seconda media, hanno sempre mostrato con orgoglio i capi acquistati da Sandwich e andare da Pino significa dimostrare al gruppo dei pari di essere finalmente cresciuti.
“Mamma, non è possibile che chiuda Sandwich proprio adesso!” mi dice Vanessa, la mia figliuola xxs, alla quale sono riuscita a comprare un paio di jeans ma non i costumi che avrebbe desiderato perché, il suo corpo, è ancora in fase di sviluppo.
Mio figlio invece si è servito alla grande in questo store perché Pra’ adolescente veste Boy London.
La più piccola invece non commenta, ci rimane semplicemente male perché per lei Sandwich non ci sarà.
M’intristisce questa chiusura, il mio primo ricordo di Sandwich è legato a un vestitino rosso che comprai diciannovenne per andare in discoteca con Giovanni Lunardon e Fabrizio Benente, come me studenti di archeologia. Benché avessi già diciannove anni, per me quel vestito significava Libertà. Ero finalmente uscita dal liceo classico, dallo studio matto e disperatissimo che aveva caratterizzato i miei ultimi cinque anni di vita (praticamente un’adolescenza negata) e riuscivo finalmente a unire studio e divertimento.
Sandwich rappresentava tutto questo e molto di più.
Perché il negozio, che adesso si trova in una bella Aurelia pavimentata ad arte, affonda le sue radici nella Pra’ degli anni Ottanta, quella Pra’ sui cui muri vi era scritto: “L’eroina uccide lentamente ma noi non abbiamo alcuna fretta”.
La Fascia di Rispetto non era neppure ipotizzata, i ragazzi ancora non conoscevano il Parkour e l’atrio di Sandwich era su un marciapiedino stretto stretto vicino alla fermata dell’Uno.
E ci si andava, che si provenisse da Pra’, dal Cep o da Voltri perché Giuseppe Fasolino aveva avuto una grande intuizione: creare una sorta di brand popolare che univa uno stile cool a prezzi accessibili per il proletariato ponentino, un Genoa Western Brand.
Bagnara per noi era inaccessibile e, forse, non rispecchiava neppure i nostri gusti; Sandwich era diverso: potevi guardare, sentire i tessuti, chiedere il prezzo e alla fine ti arrivava sempre lo sconto.
Il fenomeno Sandwich è andato ben oltre il concetto di negozio, è diventato un vero e proprio brand che ha dettato la moda a generazioni e ha diffuso marchi che prima non erano così noti.
La chiusura di questo negozio storico, immutato eppure giovane in una Pra’ che mutava, ci lascia un gusto amaro tra le labbra, forse quella lacrima che non siamo riusciti a trattenere nella stesura di questo articolo.
Brunìn è uno dei vecchi di Velva ed è un uomo che odora di cuoio e di storia, esattamente come un mio caro amico, Sergio il Genovese, suo coevo: uno che sulla storia c’è saltato a cavallo e, nonostante tutto, non ne è stato disarcionato.
Brunìn
Ed è questo che mi colpisce: la dedizione e il dovere degli uni, la ribellione e la consapevolezza degli altri:
“Della guerra mi ricordo quando fu bombardata la chiesa, su al santuario: la chiesa intatta ma le case intorno distrutte.”
“Ma chi bombardò la chiesa? I tedeschi o gli Alleati?”
“Non lo so, avevo sei anni. Sapevamo che quella era la guerra e sapevamo che i Tedeschi erano i cattivi. Anche quando mi mandarono al militare in Alto Adige, dopo la guerra, dovevamo proteggere i tralicci dai Tedeschi e pensavamo che forse la guerra non era proprio finita. Ma non ci spiegavano, sapevamo soltanto che questi Tedeschi volevano fare esplodere i tralicci e noi lo si doveva evitare”.
Traliccio fatto saltare dai Tedeschi
Rifletto un attimo e mi chiedo se sia il caso di dirglielo:
“Ma adesso lo sa perché?”
“No. So solo che c’era qualche pasticcio dello Stato.”
Appunto quella storia, io la so dai libri e dal Genovese e mi ritrovo a pensare a queste due vite diverse in due luoghi diversi che comunque mi conducono a tradurre in parole scritte memorie che altrimenti andrebbero perdute.
Era l’epoca del dopoguerra, di Odessa, dei colpi di Stato evitati, delle trame segrete, dell’irredentismo altoatesino.
Come si sentivano gli Italiani dell’Alto Adige? Italiani o Tedeschi? L’accordo De Gasperi-Gruber aveva in qualche modo protetto la minoranza tedesca ma ciò non impedì lo svilupparsi di correnti ideologiche anti-italiane: “Un legame troppo stretto con gli italiani ha effetti mortali per il nostro popolo” disse Silvius Magnago, esponente della Sudtiroler Volkspartei che, non a caso, optò poi per la cittadinanza tedesca.
Un tacito accordo aveva permesso che la comunità di lingua italiana controllasse l’industria e il pubblico impiego mentre la comunità di lingua tedesca controllava l’agricoltura e il turismo. Ciò favorì indubbiamente lo sviluppo della regione ma determinò una totale chiusura culturale e politica.
Sergio Pessot, il Genovese
Nel 1955 l’Austria ottiene la piena liberazione dalle forze di occupazione, la S.V.P. viene guidata da estremisti etnici per essa la minoranza etnica degli Alto Atesini nella regione Trentino-Alto Adige considera la condizione della minoranza inaccettabile.
Dal quel momento si intensificano le manifestazioni tendenti alla secessione dall’Italia, soltanto il Msi cerca di opporsi ma la consistenza di quell’ organizzazione nella regione era insignificante.
La situazione di profonda ostilità portò alla formazione di Befreiungsauschus Sudtirol denominato BAS dando vita ad un’organizzazione clandestina che, sul piano organizzativo, era articolata in numerose cellule locali che operavano autonomamente. Inizialmente la loro azione era limitata alla propaganda anti-italiana con distribuzione di volantini tendenti al secessionismo.
Dalla propaganda si passa all’intimidazione nei confronti della popolazione di lingua italiana e agli attentati a scopo dimostrativo.
Sono sgomenta per la capacità, tutta italiana, di mandare in guerra o in missione i giovani senza spiegarne le motivazioni profonde, utilizzarli come marionette senza neppure degnarsi di raccontare per che cosa si debba combattere, la cecità di pretendere l’abnegazione senza fornirne la giustificazione, il considerare il popolo carne da macello.
Giovani che giocano alla guerra: Velva, con i suoi portici e le sue vie deserte accende e stimola la fantasia dei ragazzi
Il Brunìn aveva il diritto di sapere quale guerra stesse combattendo e invece nessuno glielo aveva raccontato! Era, senza averne coscienza, uno degli uomini necessari in una fase molto delicata della nostra storia nazionale.
Velva
Incontro Brunìn presso la locanda Veleura. sorseggio un caffé mentre lui beve un bicchiere d’acqua; gli occhi, intelligenti e franchi, riparati dalla visiera di un berretto del tutto simile a quelli degli adolescenti di oggi ma senza il logo della Jordan.
“Lo sa, era un rudere questo qui. Mariolina e Ruggero (i proprietari della Locanda Veleura) l’hanno reso un gioiello e adesso ci viene gente. Mi faceva male vedere quel rudere, quella desolazione da paese abbandonato.”
L’idea di aprire la locanda in un paese come Velva, privo persino di un negozio di alimentari, è stata davvero coraggiosa; in questo momento la locanda è sempre piena, l’idea di Ruggero è quella di mantenere questo ritmo anche nei mesi invernali in cui Velva diviene un eremo.
Interno della Locanda Veleura
In effetti Ruggero, dopo aver lavorato per anni in Ruanda, ha deciso di tornare in Italia e, pur essendo originario di Riva Trigoso, ha eletto Velva come sua residenza: “Mia moglie si è innamorata subito di questo posto, eppure è di Benevento. Ma sa cosa c’è qui? Un’atmosfera magica: di notte si possono udire i lupi che si richiamano da una vallata all’altra, si parlano sotto le stelle e si comprende la potenza della natura.”
Mariolina e Ruggero nella loro locanda
“Anche se- aggiunge Mariolina in uno dei rari momenti in cui non è indaffarata nel locale- quando sorge la nebbia su quel monte, proprio dove ci sono i ripetitori, il Pos si ferma!”
Esterno della locanda Veleura
“Ce ne fossero giovani così! Intraprendenti e vivi. Adesso dovrebbe aprire anche l’Antonella, quella di Pino Gino…il vero problema però sono i terreni.”
“Ma il Comune non li può distribuire?”
“No, perché non sono del Comune, sono di proprietari che neanche più sanno di averceli, e così la natura se li mangia. Ma se i terreni non sono curati, Velva è destinata a morire perché le alluvioni faranno franare tutto.”
Brunìn schiude gli occhi come un gatto accarezzato dal sole, poi aggiunge:
“Sa, qui a Velva eravamo più di cinquecento anime e le classi arrivavano fino alla quinta.”
Gli chiedo se vi fosse una maestra per ogni classe.
“Le maestre erano due: una si occupava di prima, seconda e terza, l’altra della quarta e della quinta.”
“E quanti eravate in classe?”
“Eravamo dieci per classe”.
“In che lingua parlavate?”
“A scuola in italiano, per forza! Ma per il resto ci si esprimeva in dialetto, mica si aveva voglia di parlare in italiano, non era naturale.”
“E lei, Brunìn, è nato qui?”
” No, prima stavo giù, mio padre lavorava nella finanza. Io sono del ’39 e avevo un fratello di quattro anni più giovane. Quando ero ancora un bimbo di sette anni mia madre è mancata…mio padre ha lasciato la finanza, è diventato contadino e si è risposato. E ha scelto di fare il contadino.”
“Si comprò un terreno?”
“No, i proprietari terrieri erano i Del Re, noi eravamo mezzadri.”
“Ma come funzionava? Pagavate un affitto?”
” I Del Re non mi fanno pagare neppure adesso, ho il terreno in comodato d’uso. All’epoca coltivavamo e dividevamo a metà la roba: patate, fagioli, zucchini, melanzane. Ma soprattutto ci sfamavamo con la raccolta delle castagne, più faticose erano le olive e il fieno, da tagliare.”
I Del Re. Ho letto le lettere che Martino e Domenico Del re si scrissero durante la Grande Guerra, il modo in cui cercarono di aiutare le donne rimaste in paese, ne ho tratto l’immagine di una famiglia dai sentimenti nobili e alla quale i mezzadri erano fortemente legati.
Questo libro merita una recensione a parte e sarà tema di un prossimo articolo.
Immagino Brunìn giovane, contadino, me lo vedo forte e abbronzato, perso nei suoi infiniti pensieri; me lo figuro zappare, curare il terreno e la domanda mi sorge spontanea, senza filtri:
“E come facevate per l’acqua?”
“C’era una valletta con una sorgente, l’acqua finiva in una vasca e noi la usavamo. “
In seguito Velva si spopolò, i giovani erano attratti dalle promesse delle fabbriche e della vicina costa.
Anche il nostro Brunìn a vent’anni, pur senza mai abbandonare i terreni, si lascia sedurre dalla possibilità di uno stipendio: “Cominciai col lavorare nell’edilizia, poi in una salteria, infine alla FIT, un’acciaieria.
Facevamo i turni: arrivava il rottame, lo si buttava dentro i forni e si facevano dei lingotti che brillavano e venivano consegnati nella tuberia di Sestri Levante.”
“Vede qualche speranza per Velva?”
Pavimentazione della piazza a L , centro storico: attualmente il risseu è in stato di degrado
“E’ curioso: ci sono parecchi stranieri che, appena possono, lasciano il nord e vengono a svernare qui. Mi riferisco a Svedesi,Inglesi, Francesi. Comprano addirittura le case e le rimettono a posto. Siamo internazionali ma il turismo italiano ci ignora. Forse il Coronavirus farà riscoprire le nostre campagne, una cosa brutta per una cosa bella…chi lo sa.”
E’ tempo di andare: l’aria è impregnata di pensieri, le parole sono olive verdi tra le mie mani, parole donate in un giorno d’estate.
Silenzio, si respira silenzio oggi in alcuni paesini della Liguria, ma nessun silenzio è muto.
Guardiamo, cogliamo lembi di paesaggio dalle nostre finestre: spicchi di sole e di pietre che parlano, che si raccontano.
Ci chiediamo che cosa fosse la Liguria in passato, prima della fitta schiera di palazzi che ora occupano le sue colline, prima dell’affollarsi di chioschi sulle spiagge o del mare rubato dal cemento per il dio acciaio, prima dei ponti che furono.
E osservando finalmente la nostra terra ci rendiamo conto di una frastornante verità: la campagna grida.
In effetti nel nostro paesaggio si impongono due linee maestre:il profilo costiero e il profilo montuoso:profili intersecati, abbracciati, stretti, quelli che Nino Durante, scrittore praino, definisce “di verde e d’azzurro”.
E la linea dominante è quella appenninica, non quella costiera benché la costa sia la parte più conosciuta.
La fascia costiera risulta solare e splendida alle estremità di Ponente e di Levante, grigia e fortemente urbanizzata nelle zone di Genova e Savona.
Ogni paesaggio, si dice in architettura, ha un proprio genius loci, intriso di storia e di natura, perché storia e natura si compenetrano e divengono una cosa unica.
E qual è il genius loci della Liguria? E’ la riviera mediterranea, quasi come se i potenti monti venissero calamitati dall’esile costa e proiettati sul mare.
Il genius loci della Liguria, pensate, ha affascinato Vidal de la Blache (1845-1918), un geografo francese, fondatore della moderna geografia umana.
Modello mediterraneo è la zona ligure che la terminologia popolare ha distinto col caratteristico nome di riviera:
riviera di Ponente da Genova a Sanremo, riviera di Levante da Genova a La Spezia.
Ma la vera protagonista della Liguria non è la riviera, è la montagna; questa chiude la costa, la avvolge e sui versanti digradanti verso il mare si vede emergere tra piantagioni e boschi d’ulivi il borgo principale, collegato alla spiaggia da sentieri a gradini scalati da asini.
Velva, anticamente Veleura, Liguria di Levante
Fernand Braudel, uno dei massimi storici del Novecento francese (1902-1985) ha colto proprio la natura imponente e arcigna della montagna mediterranea.
“Lo spessore della montagna ci presenta un mondo arroccato, irto di baluardi, con le sue rare case sparse e i suoi villaggi, i suoi nord verticali che contrasta col paesaggio urbanizzato che si estende lungo i margini costieri.”
Braudel dunque non percepisce l’abbraccio tra montagna e mare ma il contrasto dato da due elementi opposti, in equilibrio tensivo, costretti a convivere.
Volontari dell'”Associazione Veleura”, giovani compresi, coadiuvati dall’Associazione di Chiavari “Le pietre parlanti”, in azione su sentieri dimenticati
Naturalista francese, anche De Saussure (1740-1799) vive l’estremo contrasto tra la straordinaria bellezza della fascia costiera orlata da una successione di campagne e sedi umane armoniche che formano un’unica città mentre la montagna, senza ordine, e direzione si presenta talvolta con aspetto orrido e triste.
In realtà, nonostante la diffidenza del De Saussure, l’Appennino Ligure brulica di storia, una storia che rende evidente il contrasto tra uomo e natura, impossibilitati a vivere in armonia.
Le nostre montagne sono state abbandonate dai giovani già nel 1930: la città offriva salario fisso e orari di lavoro apparentemente meno massacranti del continuo terrazzamento dei terreni, della zappa,delle braccia stanche e della pelle arsa dal freddo e dal sole.
Fausto Figone, storico di Castiglione Chiavarese, sottolinea in E’ tempo di migrare come la crisi della civiltà contadina in Val Petronio porti a una migrazione ben più definitiva di quella verso le Americhe: l’abbandono delle campagne liguri pare irreversibile e i sentieri costruiti dagli uomini di un tempo sono stati invasi dai rovi.
Fausto Figone, scrittore in jeans
Con il recente lockdown qualcosa è cambiato: le persone, in particolare le famiglie, si sono rese conto del ruolo vitale e importante dei paesini liguri.
E’ il caso di Cristina Torrisi, attualmente presidente della ri-nata Associazione Veleura. Rinata, perché non è mai morta l’Associazione, curata dall’instancabile Giorgio Raggio che ha dato supporto e aiuto per l’organizzazione di festival letterari quali In Velva Litterae.
Cristina, la donna in cui quasi per caso cade il punto di fuga di questa foto, è rimasta bloccata a Velva con marito e figli quando il presidente Conte ha annunciato il lockdown.
“Mio Dio, ho pensato, come faccio?” A Velva non c’è neppure un emporio, l’ultimo ha chiuso alla fine degli anni Ottanta e Cristina ha poco cibo, pochi indumenti per i figli.
“Io che non so cucire mi sono trovata a rammendare, stringere, allargare persino la biancheria intima dei miei figli; Amazon non ci avrebbe portato nulla prima di un mese, era una situazione del tutto eccezionale; eppure ho scoperto che qui, il Mercoledì, arriva il camion della spesa e pian piano, ma con entusiasmo crescente, ci siamo resi conto di come qui si stesse decisamente meglio. Io venivo qui in vacanza da bambina, mio marito è originario di questo comune…abbiamo fatto il passo e abbiamo preso la residenza qui.”
Adesso Cristina sta coordinando con determinazione la cura del territorio, il ripristino dei sentieri, ed è la voce più decisa nella piccola agorà del paese.
“Abbiamo intenzione di creare percorsi bike e riprendere i festival letterari ma la prima esigenza è salvare il patrimonio di un territorio così ricco, complesso e abbandonato. I vecchi ci stanno lasciando, tocca a noi adesso e il nostro intervento è determinante per il rilancio del paese: non abbiamo più tempo.”
Un paese abbandonato che sembra voler rinascere, lo dimostra l’apertura della Locanda Veleura.
Dopo aver lavorato per parecchi anni in Ruanda, un uomo decide di…
Ma questa è un’ altra storia e ve la racconterò dopo una buona colazione in locanda!
I Promessi Sposi non è un romanzo d’amore, è un romanzo storico; in tutto il romanzo non vi è neppure un bacio, non un momento di passione eppure Manzoni ci tiene inchiodati alle sue pagine. Il periodo in cui colloca l’intera vicenda la storia del XVI e del XVII secolo, un periodo molto importante per la formazione dell’Europa.Vediamo insieme la linea del tempo per capire dove ci troviamo perché, ormai lo sapete, quando affrontiamo il passato è come se facessimo un piccolo viaggio nel tempo.
Questa linea del tempo vi mostra alcuni fatti importanti del 1500, quella che vi propongo adesso è “artigianale” ma riguarda direttamente noi.
La foto è un po’…lunga. Poco male, immagina di fare un tuffo nel tempo…
Chiaramente, perché il discorso non sia noioso e tedioso, dovete trattenere per un attimo il respiro, chiudere gli occhi e immaginare di essere dei giornalisti in missione nei tempi antichi.
Dunque il vostro atteggiamento non deve essere, come si dice in Italia, “che barba, che noia” ma piuttosto “che bello! Viaggiamo nel passato!”. E il viaggio nel passato è privo di rischi perché, se le cose si mettono male, si può interrompere il video e tornare al presente.
Il 1517 è un anno cruciale per l’Europa, cruciale significa che è molto importante.
Siamo in un periodo che si chiama Rinascimento, in Italia ci sono artisti famosi e l’uomo si sente al centro dell’universo.
Nelle scorse unità didattiche che vedete in FAD, abbiamo visto Dante. All’epoca di Dante c’era Dio al centro dell’ universo.
Nel Rinascimento l’uomo è molto importante ma per poco tempo perché nel 1517 un monaco, Martin Lutero, capisce che la Chiesa pensa solo ai soldi e si ribella.
Accanto agli artisti, sempre bravissimi, si apre un periodo molto buio in cui ci si ammazza in nome della religione e della verità: sangue e arte.
La Chiesa decide di rinnovarsi, di essere più seria, ma non vuole più essere messa in discussione e fa una riforma durissima, decide inoltre di punire tutti i sapienti e gli scienziati che mettono in discussione la Bibbia.
La situazione si fa serissima quando comincia pure la guerra! Tra il 1618 e il 1648 scoppia la guerra dei Trent’anni. Pensate che vuol dire:30 anni di guerra! Aiuto!
Genova, in questo periodo così difficile, avendo perso il suo ruolo sul Mediterraneo che era in mano ai Turchi e al terribile Dragut, un pirata .
La nostra città riuscì a trasformare i suoi uomini da marinai e commercianti a banchieri! Si parla infatti de El siglo de los Genoveses poiché i Genovesi prestavano i soldi agli Spagnoli, potenti ma spendaccioni.
Questo periodo è molto interessante ed è piaciuto a uno scrittore del 1800, uno scrittore molto religioso ma molto critico nei confronti della società del Seicento. Egli denuncia soprattutto il fatto che per il popolo era molto difficile ottenere giustizia perché il mondo era in mano ai prepotenti!
Manzoni è importantissimo perché, se Dante ha inventato la lingua della poesia, lui ha inventato la lingua dei romanzi. Prima di Manzoni, i romanzi erano scitti soprattutto dagli Inglesi e dalle scrittrici inglesi (che se poi decidevano di sposarsi smettevano di scrivere romanzi poiché pentole e arte non vanno molto d’accordo!). In Italia non c’era nessuno che scrivesse romanzi così appassionanti, noi eravamo soprattutto pittori, scultori e poeti.
Manzoni, che parlava meglio il francese dell’italiano, ci riesce.
La lingua del Manzoni
E di che cosa ci parla? Guardate il video.
Ora io qui vi lascio una lettura guidata di alcuni passi così vi esercitate a leggere e ad ascoltare la lingua italiana. All’interno degli epub ci sono anche alcuni esercizietti che vi aiutano a capire se avete capito.
Però che Lucia si sia rivolta a Padre Cristoforo e non a Renzo e a sua madre è strano. Chi è Padre Cristoforo? E’ il confessore di Lucia e a quei tempi, in cui la psicologia non esisteva, il confessore ti aiutava a capire i tuoi pensieri e, a volte, a trovare la soluzione. E se non la trovavi tu, ti aiutava lui.
A differenza di Don Abbondio, Padre Cristoforo rappresenta la parte buona della Chiesa; be’, non si tratta di un tipo qualunque: ha un passato con delle ombre ma riesce, nel buio, a trovare la sua luce, a differenza di altri o altre che vedremo dopo…
Dicevamo, si tratta di un uomo coraggioso e decide di affrontare Don Rodrigo, seguitemi così conosciamo il cattivo della storia!
Dunque la spedizione non ha l’esito sperato e Renzo e Agnese che, con grande fatica, convincono Lucia a tentare un matrimonio segreto, portandosi come testimoni due ragazzi che sono in debito con Don Abbondio!
Ora, se hai capito bene, prova a guardare questo video; qui, Alberto Sordi, uno dei più famosi attori comici italiani, interpreta Don Abbondio nella notte degli imbrogli.
Senza saperlo, Agnese e Renzo, pur combinando un pasticcio, salvano Lucia che, se fosse rimasta a casa, sarebbe caduta nella bocca del lupo…
Don Rodrigo infatti cerca di rapire Lucia ma la casa delle due donne è vuota. Così quei birbanti non trovano Lucia ma Menico, un ragazzino che era stato inviato da Padre Cristoforo a Lucia per avvertirla del pericolo.
Dunque i nostri tre amici (perché ormai li conosciamo un po’) sono costretti, proprio come voi, a lasciare il loro paese.
Oltrepassato il lago, Renzo e Lucia si dividono. Noi seguiamo Lucia.
Dove va? Cosa le succede?
Gertrude era stata costretta dal padre a diventare monaca…
Quindi, a differenza di Padre Cristoforo, la povera Gertrude non ha trovato pace perché nel Seicento era meglio, se donne, nascere tra le braccia del popolo come Lucia: meglio la fame che un destino odioso!
Qualcuna riusciva a ribellarsi, non mancavano donne determinate, ma quanta sofferenza!
E Don Rodrigo che fine fa? Rinuncia a Lucia? I potenti non sono mai soli e qui entra in gioco un nuovo personaggio: l’Innominato.
E qui concludo questa prima parte, rimandandovi alla seconda per la conclusione del romanzo.
Oltre che ignoranti, li vogliamo segaioli! E’ questo, in sintesi, il messaggio de”Il fu Ministero dell’Istruzione”. Attenzione però: non segaioli di seghe mentali come quelle di un Nanni Moretti che ironizza fingendo di decidere se sia meglio partecipare alla festa standosene in disparte o non andarci proprio.
No: segaioli alla maniera di Benigni quando racconta come il prete del catechismo leggesse gli umori e le vergogne di cui i cresimandi si macchiavano nella notte.
E’ la fase 2: dopo la fase 1, in cui è stata sdoganata l’ignoranza facendo chiaramente credere che la nazione può fare a meno della Scuola e delle scuole, ora si apre la fase 2.
Tale fase consente ai bambini di materne, elementari e medie (o, se preferite, di infanzia e primaria e secondaria di primo grado) di frequentare le lezioni, onore che non sarà concesso agli allievi delle superiori.
Perché?
I motivi sono molteplici:
-a quattordici anni un ragazzino può stare in casa da solo e autogestirsi nella Dad ( se motivato, determinato, responsabile e impegnato);
-la scuola è un grande baby parking, non è necessario imparare le tabelline, l’importante è stare lì e non farsi troppo male sennò mamma e papà non possono lavorare… ma a quattordici anni sei autonomo.
Ma, udite udite qual è l’obiettivo ultimo e la causa prima di questo sfacelo: privati del contesto sociale, dei genitori in casa, degli insegnanti che in presenza li renderebbero uomini e donne pensanti, i ragazzi passeranno le mattinate a masturbarsi e diventeranno ciechi.
Ed eccola qui il fine della fase 3: la cecità! Così i ragazzi non solo non capiranno ma neppure vedranno la casta politica che li tiene in pugno.
E il delitto perfetto è servito: sapevatelo!
Ah…siccome ho parlato di sesso e non sta bene che una donna lo faccia, mi firmo…
Di chi è un libro? Di chi lo scrive o di chi racconta una storia senza averne le parole? E’ un fatto che gli autori siano destinati a prendersela nel lato B, talvolta in maniera dolorosa.
Capita, quando decidete di raccontare la storia di qualcuno, di non servire più e di essere gettati come uno straccio vecchio in una conca sporca e maleodorante. Ma non vi sentite sporchi, vi sentite stuprati, che è peggio.
Perché non c’è differenza tra essere stuprati nel corpo e nell’anima: io li ho provati entrambi gli stupri, e per quello fisico bastano una doccia e un esame, seppur angosciante, dell’HIV.
Perché noi autori siamo creature di anima, il corpo è un accessorio che spesso non ci rendiamo neppure conto di avere.
Stasera una casa editrice mi ha consigliato “di fare la brava”:
Signora,
da più d’una voce — e una di queste è … stesso — non risulta che lei sia coautrice né dell’una né dall’altro.
Posto questo, e posto anche il fatto che sarebbero gradite delle informazioni omogenee da parte di due persone che, evidentemente, hanno collaborato per lungo tempo ma che, altrettanto evidentemente, non si trovano concordi sulla natura della collaborazione — il che mi farebbe riflettere, se posso dirle in tutta onestà —, è evidente che da parte del nostro sito, che è l’unica cosa della quale rispondiamo, lei non è stata citata perché mai prima d’ora il suo nome ci era stato citato come autore di alcunché.Se il suo intento fosse stato quello di aiutarci per evitarci problemi (da parte di chi non si sa, visto che gli autori sareste, nella sua versione dei fatti, voi due: chi debba porre altre questione è cosa che mi sfugge), la ringraziamo; del resto, mai e poi mai abbiamo parlato o pubblicato contenuti del libro, ma solo e soltanto della poesia, in quanto risultata selezionata al nostro Concorso.
Mi auguro che ora abbia compreso perfettamente cosa noi abbiamo condiviso — la poesia, solo e solamente quella —, come l’abbiamo fatto — con le informazioni che ci sono state fornite —, e perché lei non sia stata citata: perché, a detta di … stesso, lei non è co-autrice di libro e poesia, ma esclusivamente collaboratrice degli stessi.
Augurandole un più sereno proseguimento,porgiamo cordiali saluti”.
Come? E tutte le metafore ?E il gatto a cui hanno tagliato i baffi? E i brandelli?
Sento l’impulso di ribellarmi.
Ma poi mi rendo conto che chi mi risponde questo, è stato raggirato esattamente come me.
E mi rendo conto finalmente di quanto sia importante avere dietro una casa editrice, evitare il self publishing, foriero di ambiguità.
Perché le personalità narcisistiche hanno un tale forte ego che ti manipolano in qualsiasi lingua.
Scrivo al mio avvocato, alla mia amica, alla fine a me stessa.
La casa suddetta mi risponde:
Fossi in lei, non userei le parole con così tanta libertà. Qui nessuno la prende in giro — le assicuro piuttosto che la sensazione è reciproca, ma non mi tratterrò su questo. A noi ha detto di essere l’unico autore, quindi non c’è bisogno che lei ceda alcunché — lo ha già fatto lui, con un documento ufficiale inviato dalla associazione di cui fa parte, alla nostra mail. Peraltro, non c’è nessun “resto”: noi mai abbiamo pubblicato altro rispetto alla poesia, di cui si dichiara — se così non è, ne parli lei con lui, noi non centriamo nulla — unico autore, quindi non ci è chiaro perché lei ci scriva di “resto” o di cose altre dalla poesia. Ripetiamo in conclusione: a noi è stato lui a dirci di essere unico autore. Se secondo lei così non è, chiarisca con lui, non coinvolgendo noi che abbiamo solo pubblicato il suo testo. Infine, ma questa è solo una valutazione morale che non c’entra con il contenuto, credo che di questa spiacevole vicenda — che certo non ci fa piacere, ma che ha prima iniziato e poi protratto lei — la cosa più importante sia l’unica che lei ha citato solo sporadicamente, quasi fosse un dettaglio: merita questo spazio, questa visibilità, e questa contentezza. Per noi il discorso termina qui.
La mia amica mi fa sorridere, mi manda un video: il plagio
Metterei in croce il mio essere stupendamente imbecille ma non imbelle.
Rileggo la lettera ricevuta: quel centriamo scritto da un editore mi lascia di stucco. Centriamo anziché c’entriamo? Lapsus, non errore: centriamo!
Che mi vogliano sparare? Forse è davvero il caso di fare la brava: che mi vogliano sparare?
E di che libro si parla?
Questo lo lascio scoprire a voi, fatevi un giro su Amazon.
Un fatto mi fa riflettere: noi scrittori siamo ladri di storie quanto i protagonisti delle storie sono ladri di parole.
E se uno dei ladri di parole ha ottime capacità relazionali (cosa di cui uno scrittore è totalmente privo perché appunto scrive ma non sa parlare) lo scrittore rimane fottuto.
Per una volta.
Una volta soltanto:
“Eh…scusa …ho spedito 11 poesie ma è proprio piaciuta quella”
Casualmente l’unica che abbiamo scritto insieme con le sue emozioni e le mie parole: mia o sua?
A metà: madre e padre.
E il padre, in quanto maschio, vince.
In quanto personaggio vince.
E la cosa più buffa è che se la avessi spedita io a mio nome non avrebbe vinto.
Ma passi la poesia: la posso pur cedere una poesia.
Resto incredula quando mi si dice che neppure il romanzo è mio.
Il
giorno in cui tutto è cambiato, siamo rimasti attoniti attorno al
tavolo della sala, mio nonno, col cucchiaio a mezz’aria, si limitò a
dire un bah.
Mia nonna commentò: <<Mi pare un’esagerazione, hanno spiegato e rispiegato che si tratta solo di un’influenza: viviamo nell’era dell’allarmismo>> e continuammo a mangiare cibi prelibati.
<<Se chiudono le scuole, ci sarà un motivo serio.>>
La voce era di mia madre che, per quanto facesse la dirigente scolastica, in famiglia era percepita come un essere un po’ naif e quindi non del tutto degno di credibilità. Il torto di mia madre era quello di dipingere ovunque potesse: dipingeva su vecchie lenzuola, su tele di poco prezzo, sui muri di casa e scriveva quaderni fitti fitti di parole, secondo me scriveva anche quando presiedeva il collegio docenti e, nel contempo, spiegava grafici incomprensibili per lei ma che qualche collaboratore le aveva preparato interpretando le sue intuizioni e i suoi desideri.
Era di sicuro così poiché lei parlava tutti i linguaggi tranne quello matematico e, pur essendo di origine argentina, danzava divinamente ma…senza musica! Della musica sentiva la melodia, non il ritmo, e questo la portava a sbagliare tutti i tempi.
Era naif, l’ho detto, eppure era un genio e a scuola riusciva ad essere rigida, ferma, decisa perché il caos che aveva dentro era nascosto dalla riga di eye-liner e dal tailleur dal taglio perfetto.
<<La circolare è precisa: dice che le scuole si devono dotare di dispenser e gel disinfettante, altrimenti non possono riaprire.>>
Lo disse e tacque.
Continuammo a mangiare, era il compleanno di mia nonna Mirella, la madre di mio padre.
Mio fratello Chegue gioiva: aveva scoperto due ore prima dell’inaspettata notizia che sarebbe stato interrogato di letteratura latina e che non gli sarebbe bastato usare come fonte la Papereneide poiché la sua professoressa faceva sul serio e voleva sapere tutto sul verso sunt lacrimae rerum.
Mio fratello e il latino non si amavano; in realtà mio fratello non amava neppure la matematica, nonostante i voti altissimi: sognava di aprirsi un marchio di moda, un suo marchio, e vendere magliette.
La chiusura della scuola, in quel momento, pioveva come manna dal cielo e lo vidi sorridere sotto il cappuccio.
Io invece amavo la scuola: vivevo per la danza; stavo preparando un solo su Evita Peron per le gare di danza sportiva. La danza mi dava sicurezza, sapevo di essere brava ed ero riuscita a entrare, al liceo coreutico.
Tuttavia, in quel preciso momento, per l’emergenza virus, venivano chiuse le scuole e bisognava accettarlo. Una misura precauzionale che mi preoccupava ma non più di tanto: almeno gli allenamenti in palestra non erano stati sospesi.
Tutto il resto, e mi riferisco ai ragazzi, era per me un dovere, una finestra sulla vita sociale e a quindici anni ero ancora vergine, a differenza di alcune mie compagne che frequentavano altre scuole.
Vivemmo due settimane in una sorta di vacanza che non potevamo comprendere: alcuni sostenevano che la malattia fosse gravissima mentre altri continuavano a sostenere che si trattasse di una banale influenza.
Ricordo che addirittura deridevamo chi usciva con la mascherina: i politici dicevano che non serviva a nulla, che tutto sommato morivano solo le persone anziane, che entro una settimana saremmo ritornati a scuola.
Mia
mamma però aveva altre notizie e si stava organizzando, insieme ai
colleghi per la didattica a distanza e il fatto che la Scuola, così
pesantemente ancorata alla lavagna e al cancellino, cambiasse, era
la chiara finestra di un cambiamento epocale perché la Scuola era
come la Curia: immobile.
Dopo una settimana ci dissero che non saremmo tornati a scuola fino al 3 aprile poi che non saremmo più tornati a scuola e neppure a danza.
Mi sentivo morta dentro.
I
contagi aumentavano in maniera esponenziale, specie al Nord, nel
cuore dell’economia italiana.
Cominciarono
ad ammalarsi i primi politici, i primi medici, i primi infermieri,
mia zia.
Panico.
Furono
vietate anche le passeggiate.
Si
poteva uscire solo per fare la spesa, andare al lavoro (in ospedale e
nei supermercati, tutte le altre attività si dovevano svolgere in
smartworking).
Mia
cugina, Sefi Safian, appassionata di tessuti aerei, circense per
natura, mi telefonava disperata e mi diceva che almeno io, essendo
una ballerina, mi potevo allenare in casa mentre lei non poteva fare
neppure quello!
<<Non
essere infantile! Posso fare solo sbarra a terra! Tutte le mie
acrobazie me le scordo, sto esattamente come te!>>
<<Qui
è un continuo passaggio di ambulanze, io non ne posso più. Chegue
che fa?>>
Da sempre aveva una mal celata cotta per mio fratello, un amore impossibile dato il legame di sangue ma Sefi Safian era particolare e per lei queste cose non contavano nulla, contavano solo l’amore e i tessuti aerei. Ci mettemmo d’accordo per allenarci insieme via Skype e, in queste occasioni, mi diceva che le davano parecchi compiti, peggio che a scuola; lei frequentava il liceo classico e non stentavo a crederlo.
La
prima settimana di prigionia fu insopportabile, poi venne la pioggia
e parve più accettabile, tornò il sole: caldo, primaverile,
beffardo.
Lezioni
on line, messe on line, spesa on line: tutto.
Mio
fratello Chegue, nei suoi sedici anni, era in piena crisi ormonale;
non poteva vedere la sua ragazza, facevano l’amore su whatsapp.
Gli
chiedevo se non temessero di essere visti, lui faceva spallucce e si
chiudeva in camera. I miei lo immaginavano ma non dicevano nulla,
bisognava far finta di niente e avere pazienza, poi tutto sarebbe
tornato come prima.
Solo
due anni prima mio fratello sarebbe stato ingestibile e, se quanto
accadde nell’anno 2020 fosse avvenuto prima, non so come ne saremmo
usciti.
Due
anni prima, al tempo del ponte Morandi, una vita fa…
Quella
vita ora è stata cancellata, con un colpo di spugna, dal Covid-19.
Il
Covid -19, una realtà che pareva lontana dal nostro Paese.
Ci
sbagliavamo: il mondo, all’epoca, era globalizzato e i virus
viaggiavano con gli stessi mezzi di trasporto dell’uomo.
Cerco di ricostruire da alcuni giornali conservati in casa, da alcuni libri, da alcuni vecchi diari scritti da noi durante quell’eterna quarantena, i fatti del periodo.
Diari che mia madre ci aveva costretto a scrivere, pena la disconnessione, perché potessimo elaborare l’angoscia che sentivamo.
Noi la odiavamo per questo, in particolare Chegue, che era un genio matematico senza alcuna attitudine umanistica, ma adesso la ringrazio perché da questa enorme massa di carta ingiallita e che voglio copiare, in modo organico, prima che si deteriori.
Internet non mi aiuta, tutto è stato cancellato in nome della pace, della tranquillità indotta attraverso droghe e terrore. E la mia narrazione vuole essere una testimonianza del prima, nella convinzione che il sole brillerà di nuovo.
Eravamo in un periodo politico molto caotico nel quale si stavano affermando i peggiori nazionalismi: il Centro Africa distrutto dalla guerra, da Ebola, dall’Hiv, cercava di raggiungere l’Europa, terra di speranze; i Cinesi e gli Americani erano nel pieno di una guerra tecnologica per il predominio economico del globo, in Siria e in tutto il Medio Oriente piovevano bombe, le foreste australiane bruciavano e Greta, una quindicenne molto particolare, gridava al mondo che l’uomo e la terra si sarebbero estinti a causa dell’inquinamento.
Greta: una profetessa bambina che vedeva oltre il muro dell’individualismo. O la amavi o la odiavi perché era intelligente e l’intelligenza contava meno della furbizia.
Insomma, per dire…questo virus aveva pure le sue ragioni: stavamo distruggendo un pianeta…
Le restrizioni però aumentavano e quando mia sorella, la piccola Simonetta, annunciò che aveva sognato il buio, tutti ci guardammo spaventati.
Padre Cristoforo, il confessore di Lucia, ascolta le ultime tristi vicende di cui la ragazza è stata vittima.
Che Don Rodrigo arrivasse fino a quel punto non se lo aspettava neppure lui.
Cosa fare?
Come aiutare i tre sventurati che gli chiedevano aiuto?
Come calmare Renzo, pronto ad affrontare il terribile Don Rodrigo?
Padre Cristoforo non è come Don Abbondio, ha un carattere completamente diverso:
Don Abbondio è un vigliacco, Padre Cristoforo è un coraggioso.
Qui state attenti ai nomi alterati!
Il palazzotto di Don Rodrigo si trovava in cima a un colle e dominava tutto il villaggio. Le casupole dei contadini che lavoravano per Don Rodrigo erano in basso, vicino al lago.
I personaggi che si incontravano vicino al palazzotto, erano dei brutti ceffi, degli omacci sempre pronti a litigare.
Don Rodrigo stava mangiando nel suo salone, con lui c’erano gli uomini più conosciuti di quel villaggio: mangiavano, bevevano, ridevano e prendevano un po’ in giro il padre Cristoforo, invitandolo a mangiare e bere con lui.
“Che cosa posso fare per lei?„ disse don Rodrigo, piantandosi in piedi nel mezzo della sala. Il suono delle parole era tale; ma il modo con cui erano proferite (dette),voleva dire chiaramente: bada a chi stai davanti, pesa le tue parole, e sbrigati.
Per far coraggio a padre Cristoforo non v’era mezzo più sicuro e più spedito che apostrofarlo con piglio arrogante (parlare con lui in modo poco rispettoso).
“Vengo a proporle un atto di giustizia, a supplicarla (pregarla)d’una carità. Certi uomini di mal affare hanno usato il suo nome per far paura ad un povero prete e lo hanno convinto a non celebrare (fare)il matrimonio di due innocenti. Lei, Don Rodrigo, può con una parola rimettere tutto nell’ordine, e sollevare quelli a cui è fatto così gran torto. Lo può; e potendolo ….. la coscienza, l’onore ….. „
“Ella mi parlerà della mia coscienza, quand’io crederò di chiedergliene consiglio. Quanto al mio onore ella ha da sapere che il custode ne sono io, ed io solo; e che chiunque ardisce ingerirsi a divider con me questa cura, io lo riguardo come il temerario che l’offende.„
“Se ho detto cosa che le dispiaccia(cosa che non le fa piacere),certo, ciò è accaduto contra ogni mia intenzione. Mi corregga pure, mi riprenda se non so parlare come si conviene; ma si degni ascoltarmi. Per amor del cielo, per quel Dio al cui cospetto(davanti a cui) tutti dobbiamo comparire …..„
“Non si ostini a negare una giustizia così facile, e così dovuta a dei poverelli. Pensi che Dio ha gli occhi sempre sopra di loro, e che le loro imprecazioni (preghiere che chiedono giustizia)sono ascoltate lassù. L’innocenza è potente al suo …..„
“Eh padre!„ interruppe bruscamente (in modo violento) don Rodrigo: “il rispetto che io porto al suo abito è grande: ma se qualche cosa potesse farmelo dimenticare, sarebbe il vederlo indosso ad uno che ardisse di venire a farmi la spia in casa.„
Questa parola fece salire una fiamma sulle guance del frate: ma col sembiante di chi inghiotte un’amarissima medicina, egli riprese:
Mi ascolti, signor don Rodrigo; e faccia il cielo, che non venga un giorno in cui si penta di non avermi ascoltato. Non voglia ripor la sua gloria …. qual gloria, signor don Rodrigo! qual gloria dinanzi agli uomini! E dinanzi a Dio! Ella può molto quaggiù: ma …..„
“sa ella che quando mi viene il ghiribizzo di sentire una predica, so benissimo andare in chiesa, come fanno gli altri? Ma in casa mia! Oh!„ e continuò con un sorriso forzato di scherno: “ella mi tratta per da più ch’io non sono. Il predicatore in casa! Non l’hanno che i principi.„
“E quel Dio che domanda conto ai principi della parola che fa loro intendere nelle loro reggie, quel Dio che le fa ora un tratto di misericordia mandando un suo ministro, indegno e miserabile, ma un suo ministro, a pregare per una innocente …..„
“In somma, padre,„ disse don Rodrigo, facendo atto di partire, “io non so quello, ch’ella si voglia dire: non capisco altro se non che vi debb’essere qualche fanciulla che le preme assai. Vada a fare le sue confidenze a chi le piace; e non si prenda la sicurtà d’infastidire più a lungo un gentiluomo.„
Al muoversi di don Rodrigo, il frate s’era mosso, gli si era posto riverentemente dinanzi, e levate le mani come per supplicare e per trattenerlo ad un punto, rispose ancora: “Lucia mi interessa, è vero, ma non più di lei; siete due anime che entrambe mi premono più del mio sangue. Don Rodrigo! Io non posso fare altro per lei che pregar Dio; ma lo farò ben di cuore. Non mi dica di no: non voglia tenere nell’angoscia e nel terrore una poverella innocente. Una parola di lei può far tutto.„
“E bene, le consigli di venirsi a mettere sotto la mia protezione. Non le mancherà più nulla, e nessuno ardirà inquietarla, o ch’io non son cavaliere.„
A questa proposta , l’indignazione del frate trattenuta a fatica fino allora, traboccò. Tutti quei bei propositi di prudenza e di pazienza svanirono: l’uomo vecchio si trovò d’accordo col nuovo; e in quei casi fra Cristoforo valeva veramente per due.(significa: Padre Cristoforo è di nuovo Lodovico) “La vostra protezione!„ esclamò egli, dando indietro due passi, appoggiandosi fieramente sul piede destro, mettendo la destra sull’anca, levando la sinistra coll’indice teso verso don Rodrigo, e piantandogli in faccia due occhi infiammati: “la vostra protezione! Bene sta che abbiate parlato così, che abbiate fatta a me una tale proposta. Avete colma la misura; e non vi temo più.„
ATTENZIONE: esce il vero animo di Don Rodrigo che comincia a dare del tu a Padre Cristoforo.
“Come parli, frate?„
“Parlo come si parla a chi è abbandonato da Dio, e non può più far paura. La vostra protezione! Io sapevo bene che quella innocente è sotto la protezione di Dio; ma voi, voi me lo fate sentire ora con tanta certezza che non ho più bisogno di riguardi a parlarvene. Lucia, dico: vedete come io pronunzio questo nome colla fronte alta, e cogli occhi immobili.„
“Come! in questa casa …..?„
“Ho compassione di questa casa: la maledizione le è sopra sospesa. State a vedere che la giustizia di Dio avrà rispetto a quattro pietre e a quattro sgherri. Voi avete creduto che Dio abbia fatta una creatura a sua immagine per darvi il diletto di tormentarla! Voi avete creduto che Dio non saprebbe difenderla! voi avete sprezzato il suo avviso! Vi siete giudicato. Il cuore di Faraone era indurato quanto il vostro, e Dio ha saputo spezzarlo. Lucia è sicura da voi: ve lo dico io povero frate; e quanto a voi, sentite bene quello che io vi prometto. Verrà un giorno ….„
Don Rodrigo era fin allora rimasto tra la rabbia e la maraviglia attonito, non trovando parole; ma quando sentì intonare una predizione, un lontano e misterioso spavento s’aggiunse alla stizza. Afferrò rapidamente per aria quella mano minacciosa, e levando la voce per troncar quella dell’infausto profeta, gridò: “levamiti dinanzi, villano temerario, poltrone incappucciato.„
Queste parole così precise, acquietarono in un momento il padre Cristoforo. All’idea di strapazzo e di villania era nella sua mente così bene e da tanto tempo associata l’idea di sofferenza e di silenzio, che a quel complimento gli cadde ogni spirito d’ira e di entusiasmo, e non gli restò altra risoluzione che di udire tranquillamente ciò che a don Rodrigo piacesse di aggiungere.
“Villan rifatto!„ proseguì don Rodrigo: “tu tratti da par tuo. Ma ringrazia il saio (vestito da prete) che ti copre codeste spalle di paltoniere, e ti salva dalle carezze che si fanno ai pari tuoi, per insegnar loro a parlare. Esci con le tue gambe, per questa volta: e la vedremo.„
Così dicendo, additò con impero sprezzante una porta opposta a quella per cui erano entrati; il padre Cristoforo chinò il capo, ed uscì, lasciando don Rodrigo a misurare a passi concitati il campo di battaglia.
Oggi voglio approfondire con voi il discorso sui linguaggi, non solo quelli verbali (tecnico, poetico, etc.) ma soprattutto quelli non verbali.
Sotto vedete un’immagine particolare però, prima di arrivarci, bisogna faticare un poco e dividerò la lezione in tre parti:
Che cos’è il linguaggio;
breve storia dei linguaggi;
da un manga a un film: Alita, angelo della battaglia.
Preciso che questo
ciclo di lezioni va studiato da tutti, anche dal corso A ove insegno
storia e non italiano.
Anzi, per par
condicio (espressione latina, traducetela così: per giustizia),
vi inserisco anche una scheda del film Pompei che abbiamo visto
insieme.
Ci sono molti modi
per raccontare una storia: la si può scrivere, disegnare,
recitare, danzare, suonare, cantare.
Vi sono dunque
tanti LINGUAGGI a disposizione di un artista per narrare una
storia e ognuno sceglie quello più adatto al proprio talento cioè
alle proprie capacità.
Ma che cos’è un
linguaggio?
Il linguaggio è un codice utilizzato da un gruppo.
Noi, in classe, ammettiamolo, abbiamo il nostro codice che è molto vicino al leggendario esperanto:senza rendercene conto, parliamo utilizzando le caratteristiche di diverse lingue e ne creiamo una lingua nuova, semplificata ma comprensibile: per imparare l’italiano usiamo, di fatto, una sorta diINTERLINGUA che unisce sguardi, gesti, parole inglesi, parole francesi, parole spagnole, parole albanesi ma… ci capiamo.
Tante volte ricorriamo ai disegni o alle immagini, questo avveniva soprattutto all’inizio perché non conoscevate la lingua: il livello A2 è un livello che garantisce la sopravvivenza e non altro; insieme abbiamo capito che, se scriviamo le parole alla lavagna, è più facile comprenderle perché le parole scritte si somigliano, è la loro pronuncia che crea confusione.
Insieme ci siamo accorti, e qui ci ha aiutati il caso, che la lingua albanese ha le declinazioni come la lingua greca e latina.
Noi ci
comprendiamo perché, inconsapevolmente, ci siamo adattati a un
linguaggio, a un codice.
Un codice che in casa mia, per esempio, non funziona: quando esco da scuola e sono particolarmente stanca, ho bisogno di un po’ di tempo per tornare alla lingua madre.
Noi utilizziamo il nostro codice per imparare l’italiano, la storia, la geografia.
Io uso un codice
per trasmettervi delle informazioni, voi usate un codice per
trasmetterle a me.
Potrei esagerare e
dirvi che anche la matematica è un codice, si parla infatti di
linguaggiomatematico.
Il linguaggio non
è solo verbale (cioè fatto di parole).
Attenzione: rientrano nel linguaggio non verbale anche il trucco, l’abbigliamento, i tatuaggi, i gioielli.
Ve lo dico perché
un datore di lavoro guarda tutto!
Torniamo a
bomba! Si tratta di un modo di dire e significa: torniamo al
punto da cui siamo partiti.
Il linguaggio può
essere:
GESTUALE
linguaggio gestuale
non vi ho messo il
terzo dito ma lo conoscete bene!
Ci sono alcuni sport, come la danza sportiva, di cui non si parla: i giornali ci raccontano del dramma delle imprese, dell’incubo delle scuole chiuse (che costringono i genitori a fare i genitori), della crisi del turismo, della perdita d’immagine dell’ Italia (avevamo un’immagine?).
L’economia, di gran lunga più importante delle persone, è in forte sofferenza e il Governo emana decreti talora contraddittori, pressato sia dagli avversari politici sia da un virus che desta comprensibile panico.
Gli imprenditori accusano, additano e incombono come giudici severi su una politica asservita alla finanza; uno dei problemi di scottante attualità è il calcio: potranno i tifosi andare allo stadio? Potrà giocare la Roma? Potrà la Juventus festeggiare?
Il calcio, il “panem et circenses” che seda i coatti, non è l’unico sport che si pratica in Italia. Tuttavia il calcio, a porte aperte o a porte chiuse, sopravviverà perché ha le sue risorse, le sue vacche grasse. In questo momento distopico il mio pensiero va a quelle attività meno conosciute che muovono esse pure l’economia del Paese ma che sono ignorate dalla massa, in particolare penso alla danza sportiva le cui competizioni sono state azzerate dal Coronavirus.
Ma che cos’è la danza sportiva?
Vanessa Galaverna-Imponente Danza
La danza sportiva è, in primis, danza e cioè una racconto artistico-coreografico; a differenza della danza che praticavo io, nella danza sportiva vi sono regole ben precise sui tempi, sui costumi, sulle scenografie, sull’esecuzione.
Non è stato facile per me accostarmi a questo mondo poiché, per conto mio, la danza ha la sua ragion d’essere in teatro; eppure, seguendo le mie figlie, mi sono resa conto di come il racconto coreografico riesca ad essere completo anche in un qualsiasi palazzetto dello sport e senza l’ausilio di luci e gelatine.
La narrazione deve dunque essere perfetta, pulita, avvincente. Mia figlia, la più grande, per arrivare a questo si allena tutti i giorni e passa dalle due alle quattro ore in palestra.
Oggi avrei dovuto accompagnare le mie figlie a Calenzano e, probabilmente, ci saremmo andate in pullman perché, trasportare una squadra e le relative scenografie è tutt’altro che semplice: noi, tifosi della danza sportiva, dobbiamo essere in grado di montare, smontare, truccare i danzatori-atleti, siamo coinvolti e immersi in quest’attività sconosciuta ai più.
In tempi di Coronavirus questo settore, come gli altri, è in evidente sofferenza economica: le gare sono ferme, le palestre sono chiuse (per cui gli insegnanti non lavorano), i pullman non partono, i palazzetti non aprono.
Il comunicato della FIDS è chiaro e logico:
In merito alle ordinanze proclamate dal Governo attraverso il Ministero della Salute d’intesa con i Presidenti delle Regioni Lombardia, Piemonte, Veneto, Friuli Venezia-Giulia, Emilia Romagna e Liguria, che prevedono lo stop alle “manifestazioni ed eventi e di ogni forma di aggregazione in luogo pubblico o privato anche di natura sportiva” per i casi sanitari di CoronaVirus registrati in questi giorni, la FIDS comunica a tutti i tesserati che i prossimi eventi federali in programma sono sospesi e rinviati a data da destinarsi. Convocata a breve una taskforce per analizzare la situazione e fornire informazioni specifiche.
Sono sospesi con effetto immediato:
Corso di formazione per tecnici federali (recupero) che si sarebbe dovuto tenere nei giorni 28-29 febbraio e 1 marzo a Bentivoglio (BO);
Corso di formazione ed allineamento qualifiche tecniche (ex FAD) che si sarebbe dovuto tenere nei giorni 29 febbraio e 1 marzo a Bentivoglio (BO);
Congresso di aggiornamento ed esame danze filuzziane che si sarebbe dovuto svolgere a Budrio (BO) il 1 marzo;
Campionato Regionale Marche, Toscana e Veneto Danze Folk Romagnole e il Campionato Regionale Emilia Romagna Danze di Coppia che si sarebbe dovuto svolgere dal 29 febbraio al 1 marzo a Burdio (BO)
Campionato Regionale Piemonte e Valle d’Aosta Danza di Coppia in programma dal 29 febbraio al 1 marzo a Biella (BI).
Tra le mille ordinanze emanate in questo periodo, ve n’è una che cozza con le altre: scuole chiuse ma palestre private aperte.
La FIDS Liguria ha dunque consigliato alle società sportive che ne fanno parte di sospendere anche gli allenamenti poiché il contagio non avviene necessariamente solo a scuola.
Mi chiedevo dunque questo: quali misure adotterà il governo perché le piccole società non falliscano?