Ciò che dici mi fa male: la vera forza è combattere insieme, non accusare

La rabbia

All’inizio mi è mancata la forza di rispondere, mi è parso di aver ricevuto un mancino sullo stomaco: la tua rabbia nel mio stomaco. Ciò che hai detto mi ha fatto male, mi hai trattato come un’estranea.

Ritieni che io mi faccia pubblicità eppure io ti ho sempre difeso: contro tutti e contro tutto. Sei un grande agglomerato di anime, non le conosco tutte, ne conosco solo alcune: i volti delle persone che incontro sulle scale, lo spessore arrotondato di calligrafie gioiose o tormentate, gli sguardi che non sono più in vita e i caffè presi insieme.

Forse dici che mi faccio pubblicità perché scrivo; e la scrittura, in un’epoca in cui si comunica soltanto attraverso la rabbia e l’insulto, fa paura perché non viene compresa: le parole si leggono ma non si capiscono. C’è un analfabetismo di ritorno creato ad arte dalla casta politica:non questa, perché l’attuale livello culturale della politica italiana è ai minimi storici, mi riferisco alla precedente.

Jpeg

Ti ho sempre difeso opponendomi a chi riteneva di non difenderti, di non darti possibilità, di ghettizzarti; è vero,  nei tuoi occhi ho cercato me stessa.

Ti ho amato di quell’amore fatto di rabbia e di speranza, di quello che ti distrugge e ti riduce all’osso prima di innalzarti.

Ora tu mi getti addosso questa rabbia gratuita che però non vedo negli occhi dei ragazzi che ho seguito: vedo sorrisi, non rancori.

Credo che il mio amico Carlo ti aiuti  molto più di me;  in maniera diversa dai frati o dallo Zenit o dalla Scuola della Pace: ognuno di noi è diverso e cerca di fare ciò che può e nel miglior modo possibile.

Io lo faccio attraverso l’insegnamento; quest’anno mi sono sentita molto orgogliosa per non aver dato pace a due ragazzini che non volevano venire a scuola.

Alla fine, hanno preso la licenza media, e non con un 6 tirato dietro ma con buone valutazioni.

 

L’accusa

Mi sono permessa di dire cose!

Cosa?

Di commentare un fatto di cronaca. Di difendere un ragazzo che è finito in carcere per la seconda volta: non è colpa sua, ho detto.

Si sapeva che ci sarebbe finito ma non è colpa sua: si sa che molti ragazzi finiscono nel crimine perché lo Stato non c’è.

Così come molti si annullano nella droga o nell’alcool, sempre perché lo Stato non c’é.

O non si può dire che molti si annullano nell’alcool e nella droga?

Mi dai dell’intelligentona e a Carlo dici di peggio: pretendi di sapere ciò che pensiamo noi!

E’ vero, non abbiamo pagato le bollette a nessuno: abbiamo semplicemente fatto nei nostri diversi ambiti ciò che era possibile fare

La Scuola

E io, come insegnante, che forza avevo? Insegnare che la speranza passa dai libri.

Così come tu mi insegni che la grinta si impara per strada: nulla di più.

Faccio schifo?

Mi devo vergognare?

Mi devo vergognare perché dico che ogni figlio che finisce in carcere è una sconfitta non dell’individuo ma della società che lo ha creato?

O mi devo vergognare perché me ne sono andata e sto aiutando i migranti?

Me ne sono andata  perché non volevo sapere i fatti vostri;non volevo relazionare le vostre vite a chi di competenza; non volevo che mi consideraste “uno sbirro”.

E  me ne sono andata perché avevo bisogno di capire alcune cose dopo una morte che non ho mai accettato.

Più volte mi sono chiesta dove fossi mentre accadeva questo: perché non ero riuscita a cogliere quegli evidenti segnali?

Dove finisce il ruolo di un docente? All’interno delle mura scolastiche anche se passa parte della vita in quel quartiere?

Dove comincia il ruolo dei servizi sociali?

La scuola non fa l’assistente sociale, cerca di dare gli strumenti perché non si abbia bisogno dei servizi sociali.

Per questo la scuola boccia e punisce l’inadempienza: nella vita non ci può essere inadempienza o una parziale adempienza: bisogna correre e non aspettare che piovano fondi salvagent

Non è nascondendo la polvere sotto il tappeto,non è giocando a un noi contro di voi che si risolvono le situazioni: il noi contro di voi si esaurisce lì, fuori da lì c’è una realtà in cui non conta il quartiere di appartenenza ma le competenze che uno dimostra di avere.

Se così non fosse, sarebbe una tragedia.

Sconosciuti

Ci sono ragazzi del CEP di cui non si parla mai: quelli che si sono diplomati al Lanfranconi o al Calvino, quelli che si stanno diplomando al Gobetti e al Rosselli.

Ce ne sono altri che hanno scelto le scuole professionali, il Bergese per esempio, e oggi c’è chi si gestisce un bar a Multedo.

Poi c’è chi vive in condizioni estreme; in questo caso sopravvivi solo se sei intelligente o se sei veloce. Però ci sono persone che non riescono a fuggire neppure se sono intelligenti o veloci: un minore italiano non può espatriare come un guineano; in Europa, eccezion fatta per l’Albania, un ragazzino in fuga è un cerbiatto braccato da cani che, nella migliore delle ipotesi, viene riconsegnato alla famiglia, nella peggiore direttamente alla comunità, tante volte, soccombe.

E molto spesso, troppo spesso, si trova a delinquere: per quanto sia maledettamente rischioso, è l’unica soluzione immediata.

 

Era questo il senso delle mie parole sul quotidiano Repubblica, non c’erano critiche né buonismo né altri significati.

Alessandra Giordano

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