La città deserta-racconto distopico

7 novembre 2028

Il giorno in cui tutto è cambiato, siamo rimasti attoniti attorno al tavolo della sala, mio nonno, col cucchiaio a mezz’aria, si limitò a dire un bah.

Mia nonna commentò: <<Mi pare un’esagerazione, hanno spiegato e rispiegato che si tratta solo di un’influenza: viviamo nell’era dell’allarmismo>> e continuammo a mangiare cibi prelibati.

<<Se chiudono le scuole, ci sarà un motivo serio.>>

La voce era di mia madre che, per quanto facesse la dirigente scolastica, in famiglia era percepita come un essere un po’ naif e quindi non del tutto degno di credibilità. Il torto di mia madre era quello di dipingere ovunque potesse: dipingeva su vecchie lenzuola, su tele di poco prezzo, sui muri di casa e scriveva quaderni fitti fitti di parole, secondo me scriveva anche quando presiedeva il collegio docenti e, nel contempo, spiegava grafici incomprensibili per lei ma che qualche collaboratore le aveva preparato interpretando le sue intuizioni e i suoi desideri.

Era di sicuro così poiché lei parlava tutti i linguaggi tranne quello matematico e, pur essendo di origine argentina, danzava divinamente ma…senza musica! Della musica sentiva la melodia, non il ritmo, e questo la portava a sbagliare tutti i tempi.

Era naif, l’ho detto, eppure era un genio e a scuola riusciva ad essere rigida, ferma, decisa perché il caos che aveva dentro era nascosto dalla riga di eye-liner e dal tailleur dal taglio perfetto.

<<La circolare è precisa: dice che le scuole si devono dotare di dispenser e gel disinfettante, altrimenti non possono riaprire.>>

Lo disse e tacque.

Continuammo a mangiare, era il compleanno di mia nonna Mirella, la madre di mio padre.

Mio fratello Chegue gioiva: aveva scoperto due ore prima dell’inaspettata notizia che sarebbe stato interrogato di letteratura latina e che non gli sarebbe bastato usare come fonte la Papereneide poiché la sua professoressa faceva sul serio e voleva sapere tutto sul verso sunt lacrimae rerum.

Mio fratello e il latino non si amavano; in realtà mio fratello non amava neppure la matematica, nonostante i voti altissimi: sognava di aprirsi un marchio di moda, un suo marchio, e vendere magliette.

La chiusura della scuola, in quel momento, pioveva come manna dal cielo e lo vidi sorridere sotto il cappuccio.

Io invece amavo la scuola: vivevo per la danza; stavo preparando un solo su Evita Peron per le gare di danza sportiva. La danza mi dava sicurezza, sapevo di essere brava ed ero riuscita a entrare, al liceo coreutico.

Tuttavia, in quel preciso momento, per l’emergenza virus, venivano chiuse le scuole e bisognava accettarlo. Una misura precauzionale che mi preoccupava ma non più di tanto: almeno gli allenamenti in palestra non erano stati sospesi.

Tutto il resto, e mi riferisco ai ragazzi, era per me un dovere, una finestra sulla vita sociale e a quindici anni ero ancora vergine, a differenza di alcune mie compagne che frequentavano altre scuole.

Vivemmo due settimane in una sorta di vacanza che non potevamo comprendere: alcuni sostenevano che la malattia fosse gravissima mentre altri continuavano a sostenere che si trattasse di una banale influenza.

Ricordo che addirittura deridevamo chi usciva con la mascherina: i politici dicevano che non serviva a nulla, che tutto sommato morivano solo le persone anziane, che entro una settimana saremmo ritornati a scuola.

Mia mamma però aveva altre notizie e si stava organizzando, insieme ai colleghi per la didattica a distanza e il fatto che la Scuola, così pesantemente ancorata alla lavagna e al cancellino, cambiasse, era la chiara finestra di un cambiamento epocale perché la Scuola era come la Curia: immobile.

Dopo una settimana ci dissero che non saremmo tornati a scuola fino al 3 aprile poi che non saremmo più tornati a scuola e neppure a danza.

Mi sentivo morta dentro.

I contagi aumentavano in maniera esponenziale, specie al Nord, nel cuore dell’economia italiana.

Cominciarono ad ammalarsi i primi politici, i primi medici, i primi infermieri, mia zia.

Panico.

Furono vietate anche le passeggiate.

Si poteva uscire solo per fare la spesa, andare al lavoro (in ospedale e nei supermercati, tutte le altre attività si dovevano svolgere in smartworking).

Mia cugina, Sefi Safian, appassionata di tessuti aerei, circense per natura, mi telefonava disperata e mi diceva che almeno io, essendo una ballerina, mi potevo allenare in casa mentre lei non poteva fare neppure quello!

<<Non essere infantile! Posso fare solo sbarra a terra! Tutte le mie acrobazie me le scordo, sto esattamente come te!>>

<<Qui è un continuo passaggio di ambulanze, io non ne posso più. Chegue che fa?>>

Da sempre aveva una mal celata cotta per mio fratello, un amore impossibile dato il legame di sangue ma Sefi Safian era particolare e per lei queste cose non contavano nulla, contavano solo l’amore e i tessuti aerei. Ci mettemmo d’accordo per allenarci insieme via Skype e, in queste occasioni, mi diceva che le davano parecchi compiti, peggio che a scuola; lei frequentava il liceo classico e non stentavo a crederlo.

La prima settimana di prigionia fu insopportabile, poi venne la pioggia e parve più accettabile, tornò il sole: caldo, primaverile, beffardo.

Lezioni on line, messe on line, spesa on line: tutto.

Mio fratello Chegue, nei suoi sedici anni, era in piena crisi ormonale; non poteva vedere la sua ragazza, facevano l’amore su whatsapp.

Gli chiedevo se non temessero di essere visti, lui faceva spallucce e si chiudeva in camera. I miei lo immaginavano ma non dicevano nulla, bisognava far finta di niente e avere pazienza, poi tutto sarebbe tornato come prima.

Solo due anni prima mio fratello sarebbe stato ingestibile e, se quanto accadde nell’anno 2020 fosse avvenuto prima, non so come ne saremmo usciti.

Due anni prima, al tempo del ponte Morandi, una vita fa…

Quella vita ora è stata cancellata, con un colpo di spugna, dal Covid-19.

Il Covid -19, una realtà che pareva lontana dal nostro Paese.

Ci sbagliavamo: il mondo, all’epoca, era globalizzato e i virus viaggiavano con gli stessi mezzi di trasporto dell’uomo.

Cerco di ricostruire da alcuni giornali conservati in casa, da alcuni libri, da alcuni vecchi diari scritti da noi durante quell’eterna quarantena, i fatti del periodo.

Diari che mia madre ci aveva costretto a scrivere, pena la disconnessione, perché potessimo elaborare l’angoscia che sentivamo.

Noi la odiavamo per questo, in particolare Chegue, che era un genio matematico senza alcuna attitudine umanistica, ma adesso la ringrazio perché da questa enorme massa di carta ingiallita e che voglio copiare, in modo organico, prima che si deteriori.

Internet non mi aiuta, tutto è stato cancellato in nome della pace, della tranquillità indotta attraverso droghe e terrore. E la mia narrazione vuole essere una testimonianza del prima, nella convinzione che il sole brillerà di nuovo.

Eravamo in un periodo politico molto caotico nel quale si stavano affermando i peggiori nazionalismi: il Centro Africa distrutto dalla guerra, da Ebola, dall’Hiv, cercava di raggiungere l’Europa, terra di speranze; i Cinesi e gli Americani erano nel pieno di una guerra tecnologica per il predominio economico del globo, in Siria e in tutto il Medio Oriente piovevano bombe, le foreste australiane bruciavano e Greta, una quindicenne molto particolare, gridava al mondo che l’uomo e la terra si sarebbero estinti a causa dell’inquinamento.

Greta: una profetessa bambina che vedeva oltre il muro dell’individualismo. O la amavi o la odiavi perché era intelligente e l’intelligenza contava meno della furbizia.

Insomma, per dire…questo virus aveva pure le sue ragioni: stavamo distruggendo un pianeta…

Le restrizioni però aumentavano e quando mia sorella, la piccola Simonetta, annunciò che aveva sognato il buio, tutti ci guardammo spaventati.

Rosa Johanna Pintus

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