La favola dei topi e del formaggio

A Valerio Mancuso con affetto.

Prima di raccontarti la favola dei topi e del formaggio, caro Valerio, voglia tu apprendere in quali circostanze l’ho ascoltata e capirai come le ragioni di un ricorso o di un esposto possano essere valide e giuste.

E anche se la necessità ci conduce ad essere gli uni topi e gli altri gatti, le mosse dei padroni risultano essere dettate dalla casualità e non da un’attenta analisi dei fatti.

Così chi viene coccolato prima, non è raro che cada in disgrazia poi.

Il mio professore di greco era un tipo del tutto singolare: serissimo nello svolgere la materia, ferreo e giusto nei voti, inveiva però contro quella maledetta norma che gli impediva di fumare in classe.

Sicché, ora per sfida ora per impellente necessità, soleva tenere un mozzicone appena spento tra le labbra pregustando l’agognata pausa sigaretta.

Ed era così pregno di nicotina che lo avevamo nominato Baffo Giallo.

Non che questa fosse la sua unica particolarità: amava tradurre ma detestava assegnare i temi perché lì gli studenti divagavano in mille discorsi : preferiva l’aoristo che leniva ogni male.

La sua avversità per la prova scritta d’italiano era manifesta già dai titoli, si variava da “E’ meglio illuminare un angolo buio che una pagoda cinese di cinque piani” a “Spingere una canoa nella melma non è così difficile quanto sembra” fino al più temibile di tutti: “Pizza pazza cerca pizzaiola“.

Fu un titolo che io, quattordicenne con gli occhiali e la faccia da bimba, depressa già dal fatto che le mie compagne avessero le tette ma soprattutto il ragazzino, accolsi con un gran pianto.

Fu lì che capii il valore rassicurante dell’aoristo sigmatico.

Fu in quel caso che Baffo Giallo mi disse: <<Suvvia, signorina, non pianga! La conosce la favola dei topi e del formaggio?>>

E, come insegna Esopo, comincio così:
λέγεται …si narra che due topi molto ingordi avessero visto una pentola piena di latte. Spavaldi e veloci, nonostante il gatto di casa ancora non dormisse ma si facesse coccolare dalla padrona, decisero di agire.

<<Prrrr, prrrr>> godeva il gatto, <<Bello micione>> diceva la padrona beandosi e perdendosi in quel pelo folto e lucido.

Rapidi i due soci riuscirono a spostare il coperchio ma il gatto rizzò la coda in allerta per gli insoliti scricchiolii della cucina.

Quelli, spaventati, facendo leva con il muso, lo fecero cadere e il rumore richiamò il peloso gattone.

<<Mmeeeeo>> disse il gattone, <<Squiiiit>> gridarono i topi terrorizzati, <<Splash!>> fece il latte.

La padrona vedendo tutto a soqquadro redarguì il gatto.

I topi lo sbeffeggiarono e risero perché la donna, sicura e boriosa, accusava il gatto per il coperchio rotto ma non guardava la pentola.

Sazi e satolli per il latte ingurgitato, dopo un po’ i due topi provarono ad uscire dal loro nascondiglio; il volume del latte si era però abbassato sensibilmente e le pareti del pentolone erano lisce.

<<E adesso come facciamo?>> chiese il primo piagnucolando.

<<Nuota, nuota: il dio Topolòn non ci abbandonerà.>> rispose l’altro che da sempre rispettava i sacri riti.

Così, lentamente, il latte si tramutò in formaggio e i due topi poterono uscire con un balzo e portarsi un piccolo pasto a casa.

Ὁ μῦθος δηλοῖ ὅτι (la favola insegna che) nelle circostanze avverse non bisogna perdersi d’animo ma occorre lottare uniti.

Oh be’, Baffo Giallo aveva narrato il tutto in due parole ma oggi questo sarebbe lo svolgimento di quel tema.

Cosa scrissi allora? Non ricordo. Certo è che Baffo Giallo mi ha insegnato a scrivere e di questo gli sono grata.

Rosa Johanna Pintus


Vittorio Zucconi, à toute a l’heure-PoliticaCultura

Cosa potrei dire per ricordare Vittorio Zucconi? Forse in certi casi, essendo il defunto uno scrittore, è meglio lasciar parlare lui:


Il suo corpo è diventato erba della Prateria e solo il suo spirito vive. Io voglio essere con il suo spirito, non con le sue ossa.

E a quale libro appartiene questa citazione, ve lo dico dopo.

Mi sono innamorata della voce cartavetro di Vittorio Zucconi un pomeriggio, a Velva.

Ero solo una ragazza che leggeva libri, non perché mi piacesse realmente leggere ma perché ero troppo timida per giocare ai corteggiamenti. Il sesso lo imparavo da Ken Follet: era un sesso proibito che nascondevo nelle copertine di libri più tiepidi e, del resto, se si ha un maschio vivace come fratello, l’attenzione dei genitori non è sulle letture della figlia modello.

Sia Ken Follet sia Zucconi scrivevano di guerra fredda e libertà e mi parevano, in qualche modo, legati da una pari curiosità verso l’URSS e verso gli Usa.

Curioso, alla voce di Vittorio non collegavo alcun volto così come al viso di Ken Follet non riuscivo a dare alcuna voce.

Ciò che constatavo, estate dopo estate, era la mia personale maturazione intellettuale, non quella fisica, nonostante le foto che mio fratello mi faceva per darmi fiducia e per dimostrarmi che non ero l’ultima delle rane.

Ma in tempi in cui non esisteva instagram questa cosa, e cioè che non ero una rana, non poteva neppure essere testimoniata dai social!

Così restavo lì a consolarmi di voci e parole lontane mentre le altre ragazze si baciavano e vivevano d’amore.

Vittorio Zucconi era uno che aveva avuto coraggio: il coraggio di imparare profondamente una lingua diversa dalla sua, il coraggio di andarsene da uno Stato troppo stretto e molto vicino a deteriorarsi.

Fu, a suo modo, immigrato senza passare per Ellis Island e divenne naturalizzato americano.

Riuscì a vivere di scrittura, a essere giornalista a tempo pieno.

Scrisse romanzi dal linguaggio diretto, semplice, essenziale, preso forse dalla scrittura anglosassone: paratattica come una sceneggiatura.

Forse perché amava usare gli articoli di giornale per comunicare con gli adulti e i romanzi per parlare ai ragazzi.

Acuto, già in ““>Gli spiriti non dimenticano” racconta l’epopea dei Sioux e il destino di un popolo costretto a rinunciare alle proprie tradizioni:

Fratelli della Grande Prateria, ora voi dovete ricominciare la vostra vita e dimenticare gli insegnamenti dei vostri padri. Per diventare come l’Uomo Bianco e per imparare a vivere nel suo mondo, dovrete imparare ad accumulare cibo e ricchezza solo per voi stessi, e dimenticare i poveri e gli altri uomini, che non sono fratelli ma selvaggina da cacciare. Dovrete costruirvi una casa di legno e di pietra, e, quando la vostra casa sarà costruita, dovrete guardarvi intorno e cercare quale altra casa e quali ricchezza potrete portare via al vostro vicino. Perché questa è la maniera dei bianchi e questo è il mondo nel quale il nostro popolo ora dovrà imparare a vivere e sopravvivere.

Non è un caso che Vittorio si sia spento in questo momento d’italica barbarie,

à tout à l’heure…ora cavalcherai nelle praterie dei Sioux.


Silvia, do you remember?-politicacultura

Silvia, do you remeber…?” Mi sono trovata così, quasi per caso, a raccontare “A Silvia” ai miei allievi anglofoni e a osservare la comune radice di “rimembrare” e “to remember.”

Sono andata avanti nella lettura e nella traduzione della poesia. Perché distruggerla con una banale parafrasi in un italiano semplificato, orribile, lontano da qualsiasi poesia quando la lingua inglese le rendeva giustizia?

Silvia, do you remember when you was in life?

Il mio inglese è come il loro italiano, un po’ mi arrampico sugli specchi per tradurre e quindi dico:

Maybe: the moment in your mortal life.

Mi guardano perplessi e una ragazza afferma: she’s dead; so Liopard remember.

La traduzione diviene corale: sono tutti affaccendati e pare di trovarsi in un suk culturale in cui i nigeriani impongono il tono di voce, i francofoni sussurrano, gli ispanofoni e l’unico italiano si consultano e sono irrimediabilmente romantici:

Ma proffe, dice l’italiano, si amavano, no?

E chi lo sa! Not given! Ognuno è libero d’immaginarsi la sua storia, la sua Silvia e il suo Giacomo anzi potremmo…

Nooooo! No maestra scrivere questa storia come per Rinascimento!

Quando spiego letteratura in inglese o in francese taluni dissentono; in realtà questo metodo è utile per aiutare gli Italiani nel loro percorso di crescita: nella scuola tradizionale è di moda la CLIL, e noi-in CLIL costante- siamo fashion!

Lo dico sempre agli Italiani, in genere ragazzi a rischio dispersione (anzi, dispersi recuperati) che non hanno conseguito il diploma nella secondaria tradizionale: dovete svezzarvi con le lingue, fate pratica, non è detto che troviate lavoro qui.

Il CPIA non è una colonia allofona nel nostro Paese, è occasione di crescita corale per un intero territorio. I motivi che mi ha spinto a insegnare in questa scuola sono stati proprio la possibilità di utilizzare lingue altre, di confrontarmi con adulti su differenti visioni di vita.

Li faccio parlare in italiano, li faccio scrivere in italiano ma letteratura, arte e storia vanno affrontati in un altro modo: non si può ridurre il programma, occorre ampliare le conoscenze!

Urge, nell’integrazione, non limitarsi ai riflessivi.

Come?

Attraverso la lingua di chi si ha di fronte, perché quelli che hanno avuto la possibilità di studiare siamo noi e non loro.

Occorre, in itinere, accettare l’errore di ortografia se dietro c’è il pensiero; e le griglie? E l’esame? E che? E che? E che?

Non accettare l’errore, condannare l’errore, scandalizzarsi verso chi non capisce non è giusto: non vale la pena attraversare il deserto e il mare per scrivere ” sogno” e “sognio”, vale la pena di avere la chiave per accedere a Leopardi.

Se non lo si riconosce, l’italiano diventa quella siepe “che dell’ultimo orizzonte il guardo esclude”.

Silvia, do you remember?

Et voilà, arriva il difficile e invoco lo Spirito Santo:
O Natura, o Natura,
Perché non rendi poi
Quel che prometti allor? Perché di tanto
inganni i figli tuoi?

Ehm… Nature for him is…

Guardo il francofono che conosce l’inglese e dico belle-mère e lui dice “ah, oue, mais pourquoi?

Elle n’est pas bonne, elle est dangereuse; mais elle ne veut pas etre dangereuse, she doesn’t care about anyone.

L’anglofono che capisce il francese-vivono insieme- dice: stepmother! Sì, ma ora bisogna spiegare perché. Se non riesco a tradurre, devo almeno spiegare il concetto chiave!

Leopardi non credeva in Dio, he didn’t believe in God.

Oh my God! You mean like old Greeks?

No! He thinks that God is illusion. Every things for him is illusion. Dio non c’è per lui: c’è la bad Nature e c’è la mente umana, human mind. Lui è hungry con la natura.

“Oh, he was poor!” ” No, perché è povero?””Allora perché ha fame?””No, he was in rage!” “Oh, maestra, you mean angry”.

Touchée. Quella parola lì la sbaglio sempre, alla fine ci siamo capiti. E andiamo avanti, fino alla conclusione, fino a capire che per Leopardi there is Nature and there is Mind.

Only the mind is not an illusion but only the mind creates illusions perché “io nel pensier mi fingo”.

Ma questa è un’altra storia ed è la prossima lezione.

E’ difficile anche in inglese, dice uno studente, it’s not a song (e siccome è un rapper aggiunge: oh…shit! detto sht perché non vuole farsi sentire ma scoppiamo tutti a ridere).

Non è una canzone, non è una canzone; sono pensieri, philosophie!

Lo dice un francofono, uno che ha studiato e che viene a scuola quando può perché la Comunità non gli paga più l’abbonamento dell’autobus. Ha cambiato tre comunità quest’anno: una perché è diventato maggiorenne, le altre due perché questi ragazzi vengono spostati come pacchi e l’unico elemento di continuità che hanno è la Scuola.

La canzone è il povero Pascoli con il suo ritmo e con la sua siepe che invece protegge e chiude.

Come l’Italia, che chiude i suoi porti.

“La terraferma Italia è terra chiusa” scrive Erri De Luca.

Rosa Johanna Pintus


Follia di fede: Jacopone da Todi e la Pasqua sofferente di Maria

 

Che la fede sia follia mi è chiaro da tempo ma , da tempo, questa mi è necessaria.

Tra le figure che mi hanno formato, la mia attenzione va a Jacopone da Todi.

Il mistico allora mi viene incontro col suo sguardo cupo e sofferente in questa Pasqua del terzo millennio: io indosso la mia felpa bianca e le scarpe ormai dismesse da mio figlio che cresce, lui il saio.

 

Lo immagino vestito alla moda, affascinante e libertino fino al suo tragico Sessantotto (1268) quando vide la signora Vanna, moglie di Bernardino di Guidone, cadavere a causa del crollo di un pavimento.

Su quel corpo Jacopone trova il cilicio: perché Vanna si autoflagellava? Quali segreti nascondeva? E in che relazione era con Jacopone, celebre legale?

Jacopone non mi risponde, detesta i pettegolezzi ma ammette che da lì qualche cosa successe.

Così lo troviamo a mendicare, proprio come un barbone avido di spiritualità, e dopo dieci anni entra nei frati minori.

Gli domando perché, uno come lui, si trovò a ricevere una scomunica.

Non ama ricordare quel periodo in cui  Celestino V, come ricorda Dante, fece per viltade il gran rifiuto:

Fu un periodo terribile, noi pauperes riponevamo grandi speranze in Celestino V, egli tuttavia non era in grado di reggere l’ostilità di Bonifacio VIII. Quest’ultimo era una bestia avida di potere e priva di scrupoli, in men che non si dica organizzò una spedizione contro la Palestrina dei Colonna.

Resistemmo per un anno e mezzo ma poi fummo costretti a cedere: uomini di Dio contro uomini di Dio: la religione non c’entrava nulla.

Fui condannato al carcere perpetuo e alla scomunica, quest’ultima mi pesava più della prigionia stessa.

Fu Benedetto XI a revocare la mia scomunica, entro qualche anno sarei morto.

Umbro ma diversissimo da Francesco d’Assisi, Jacopone non crede a un rapporto semplice e sereno tra creature e creatore: la strada per la fede è sofferenza, dolore, desiderio di morte.

Arso tra sensazioni estreme e antitetiche, il nostro vive un’esperienza religiosa simile alla follia e non alla saggezza; e forse è proprio la follia religiosa che lo porta verso l’arte poetica più pura.

Ciò lo allontana però dagli ambienti culturali più importanti e, nonostante la solida base culturale, di lui emerge soprattutto il ribelle.

Quel ribelle che ci regala il più dolce e tragico ritratto di Maria davanti alla croce. Jacopone non s’illude, non vede una madonna azzurra e rarefatta anzi, per certi versi, anticipa la pietà di Michelangelo.

Cosa pensò la Madonna durante la passione e la morte di Cristo? Vi lascio dunque, senza parole, a leggere i versi di Jacopone che ci mostrano una madre impotente contro un destino che, forse, non era pronta ad affrontare.

Nunzio-  Donna del paradiso,
lo tuo figliolo è priso,
Jesu Cristo beato.
Accurre, donna, e vide
che la gente l’allide !
credo che ‘llo s’occide,
tanto l’on flagellato.

Madonna- Como esser porrìa
che non fece mai follia,
Cristo, la speme mia,
om’ l’avesse pigliato ?

Nunzio- Madonna, egli è traduto,
Juda sì l’ha venduto
trenta denar n’ha ‘vuto,
fatto n’ha gran mercato.

Madonna-Succurri, Magdalena,
gionta m’è adosso piena !
Cristo figlio se mena,
como m’è annunziato.

Nunzio-Succurri, Donna, aiuta !
ch’al tuo figlio se sputa
e la gente lo muta,
hanlo dato a Pilato.

Madonna- O Pilato, non fare
lo figlio mio tormentare,
ch’io te posso mostrare
como a torto è accusato.

Popolo- Crucifige, crucifige !
Omo che se fa rege,
secondo nostra lege,
contradice al senato.

Madonna-Priego che m’entendàti,
nel mio dolor pensàti;
forsa mò ve mutati
de quel ch’avete pensato.

Nunzio-Tragon fuor li ladroni
che sian suoi compagnoni.

Popolo- De spine se coroni !
ché rege s’è chiamato.

Madonna-O figlio, figlio, figlio !
figlio, amoroso giglio,
figlio, chi dà consiglio
al cor mio angustiato ?
Figlio, occhi giocondi,
figlio, co’ non respondi ?

figlio, perché t’ascondi
dal petto o’ se’ lattato ?

Nunzio-Madonna, ecco la cruce,
che la gente l’aduce,
ove la vera luce
dèi essere levato.

Madonna-O croce, que farai ?
el figlio mio torrai ?
e che ce aponerai
ché non ha en sé peccato ?

Nunzio-Succurri, piena de doglia,
ché ‘l tuo figliol se spoglia;
e la gente par che voglia
che sia en croce chiavato.

Madonna-Se glie tollete ‘l vestire,
lassàtelme vedire
come ‘l crudel ferire
tutto l’ha ‘nsanguinato.

Nunzio-Donna, la man gli è presa
e nella croce è stesa,
con un bollon gli è fesa,
tanto ci l’on ficcato !

L’altra mano se prende,
nella croce se stende,
e lo dolor s’accende,
che più è multiplicato.

Donna, li piè se prenno
e chiavèllanse al lenno,
onne iontura aprenno
tutto l’han desnodato.

Madonna-Ed io comencio el corrotto.
Figliolo, mio deporto,
figlio, chi me t’ha morto,
figlio mio delicato ?
Meglio averìen fatto
che ‘l cor m’avesser tratto,
che, nella croce tratto,
starce descilïato.

Cristo- Mamma, o’ sei venuta ?
mortal me dài feruta,
ché ‘l tuo pianger me stuta,
ché ‘l veggio sì afferrato.

Madonna-Figlio, che m’agio anvito,
figlio, patre e marito,
figlio, chi t’ha ferito ?
figlio, chi t’ha spogliato ?

Cristo-Mamma, perché te lagni ?
voglio che tu remagni,
che serve i miei compagni
ch’al mondo agio acquistato.

Madonna-Figlio, questo non dire,
voglio teco morire,
non me voglio partire,
fin che mò m’esce il fiato.
Ch’una agiam sepultura,
figlio de mamma scura,
trovarse en affrantura
mate e figlio affogato.

Cristo- Mamma col core affetto,
entro a le man te metto
de Joanne, mio eletto;
sia il tuo figlio appellato.

Cristo-Joanne, esta mia mate
tollela en caritate
aggine pietate
ca lo core ha forato.

Madonna-Figlio, l’alma t’è uscita,
figlio de la smarrita,
figlio de la sparita,
figlio attossicato !

Figlio bianco e vermiglio,
figlio senza simiglio
figlio a chi m’appiglio ?
figlio, pur m’hai lassato.

Jacopone da Todi – Rosa Johanna Pintus