Fernanda Pivano. Ciao, signora Libertà, ci vediamo.

Ho aspettato oggi, 18 agosto, ricorrenza della tua morte, per pubblicare questo racconto che è la prima versione di un altro, quello pubblicato su “Protagoniste genovesi”, un’antologia che raccoglie biografie di donne genovesi illustri e pubblicata da De Ferraris.

A me fu affidata Fernanda Pivano con la quale avevo un conto in sospeso.

Il racconto pubblicato sul volume citato è diverso perché-come mi fecero notare le colleghe Simonetta Ronco (ideatrice dell’antologia) e Serafina Funaro- l’idea era quella di raccogliere biografie e non interpretazioni. Così “Ciao, signora Libertà, ci vediamo” è diventato “Fernanda Pivano, una donna di parola”, una trattazione lineare e maggiormente aderente alla figura di Fernanda.

Il racconto però c’è. Forse parla più di me più che di lei, dei terribili mesi trascorsi in casa e lontana dal lavoro, misera e sporca No Vax.

Mio Dio! Quanta violenza c’è in me che mi ritengo cristiana? L’odio è più forte di ogni sentimento: l’amore ti azzera, l’odio ti salva.

Sogno ministri appesi a testa in giù.

Il cimitero di Bergamo, il la, e la lunga e geniale teoria di camion militari. E’ buio e mi chiedo perché agiscano nel buio.

La mia cugina bergamasca che piange al telefono.

Ipnosi.

Poi tutto va veloce e io non lo comprendo più.

Ho bevuto dal bicchiere di una mia amica positiva. Pericoloso? Non so; la forza dell’esasperazione e l’avvilimento della disperazione possono molto. 

Ho fatto bene? 

Ho fatto male? 

Sono pazza? 

Forse. 

Ma parliamo di Fernanda che mi parla mentre muoio.

Una bellissima e giovane Fernanda

Ciao, signora Libertà, ci vediamo.

Ti ho conosciuta, Fernanda Pivano, attraverso gli occhi azzurri di Clemente  che era il mio ragazzo e avevamo vent’anni.

Vent’anni.

Tanti, pochi, abbastanza per immaginare un embrione di futuro, una bozza di sogno che seguisse la nostra inclinazione naturale: la scrittura.

Mentre i coetanei passavano la vita in Vico San Bernardo, a bere e a strafare in quel capolavoro di birreria che era il Moretti, ove l’arredamento trasudava storia, noi ci recavamo a Il Panino di Arenzano, lontani dalla folla e indifferenti alla gioia. Passavamo ore intenti a scrivere e a guardare – o meglio scrutare – film, cercando di comprendere la complessità della vita.

Non che non bevessimo, per carità, ma il bere era un accessorio da Bohème,  la ricerca di una svago significante come il suono delle parole belle, e attendevamo, come Nanni Moretti, l’alba sui prati di Pegli dalla parte sbagliata: si esisteva la notte e il giorno era un nulla; la vita era scrittura, carta, inchiostro .

Fu per questo che il vecchio Clem arrivò a fondare una rivista, Poca Luce, e fu in occasione di un’intervista che ti conobbe; si era infatti messo in testa di raccontare il debito che la letteratura italiana aveva nei confronti di quella americana e di come i nostri intellettuali, fossero essi perbenisti cattolici o irreprensibili comunisti, non riuscissero a coglierne la vera essenza:

<<Perché in Italia nessuno osa veramente.>>

<<Io credo invece che sia nostro dovere attingere ai classici e, del resto, ammettilo: che cos’è Spoon River se non un coro menadico?>>

Clemente, cara Fernanda, prima di incontrarti si era inebriato dell’opera omnia di Charles Bukowski che io detestavo ma che tu avevi intervistato nel 1980 quando noi due avevamo sei anni e già scrivevamo. 

L’intervista, quella a Bukowski, fu pubblicata nel 1982 con il titolo Quel che importa è grattarmi sotto le ascelle ma, grazie alla longevità della pagina scritta, potemmo leggerla comodamente anni dopo e discuterne.

A Bukowski io preferivo Hemingway perché era epico e bello, un eroe kalòs kai agathòs a cui, Fernanda, tu dicesti di no, l’unico no di cui ti rammaricasti.

Vedevi in Hemingway un uomo coraggioso ma lui si era accorto che la coraggiosa eri tu.

Apristi gli occhi nel 1917 a Genova, nascendo sotto il segno degli Americani che io tanto detesto, entrati nel conflitto mondiale da poco come una costellazione che illumina il buio.  Nascevi sotto la loro egida e l’Italia, che ancora non aveva visto Caporetto, non sapeva che tutto quel Male avrebbe portato semi di Bene pur solo nell’arte.

Nell’inconsapevolezza dell’infanzia, l’America ti entrò nel sangue pur in una vittoria mutilata.

Furono arbitri, gli Americani, e Woodrow Wilson segnò i quattordici punti che avrebbero dovuto salvare l’Europa e furono tuoi. 

Imparasti l’inglese in famiglia, poi la Scuola Svizzera ove apprendesti il francese e il tedesco, quindi il liceo classico Massimo D’Azeglio a Torino. Il tuo destino fu un professore che non amava se stesso ma che seppe toccare il tuo cuore: Cesare Pavese.

Non amava se stesso mentre tu, allora ragazza, lo amavi; non amava se stesso ma, donna cresciuta, ti amò con dolcezza e senza speranza: le sue lettere ti raggiunsero a Mondovì, poiché lì ti trovavi durante i bombardamenti del 1942, e quel “Lei” indicava un’intima affinità elettiva.

Che scriveva Pavese?

 “E’ il momento in cui lei, se è in gamba, può acchiapparmi e bagnarmi il naso. Basta che lavori, studi, traduca e sforzi la testina. Diventerà celebre, scriverà libri, troverà la cattedra, sarà una luminare della filologia.”

Mi aiuta Ernesto Billò a ricostruire quel periodo, leggo avidamente il suo articolo semplice, intenso e chiaro: non è facile trovare tue notizie biografiche perché sembri ancora viva, ti rendono viva quei video youtube in cui parli e in cui scruti chi ascolta, e le notizie che riguardano la tua vita si ritrovano negli anfratti dei giornali locali, nelle tesi, nei teatri.

Pavese ed Einaudi: che vita! che Fato!

Nel 1943 traducesti, su incarico di Einaudi, Addio alle armi… 

In Italia c’è la guerra civile, non soltanto la guerra mondiale e Torino è occupata dalle truppe naziste. Le SS perquisiscono lo studio di Einaudi: c’è un contratto a tuo nome. I soldati ridono: una donnetta, non ci credono. Il romanzo proibito dal duce può essere stato tradotto solo da un uomo. Girano i tacchi, passi in discesa per le scale. Girano la chiave nell’auto, sono nella tua via, Fernanda!

Salgono. Fermano tuo fratello Franco che li segue.

Hotel Nazionale: è lì che alloggiano.

Piangi, ti disperi, ti vesti di dignità. Decisa, vai a chiarire l’errore.

Hai ventisei anni e un bel volto; guardi i militari negli occhi:

<<Ho tradotto io quel romanzo. Ed è stato un onore.>>

<<Dove si trova Giulio Einaudi?>>

<<Non lo so.>>

Uno alza il tono, gli altri ti circondano di battute volgari che fingi di non capire:

<<Dove si trova Giulio Einaudi?>>

<<Non lo so.>> Il tuo è quasi un sussurro perché provi disgusto, rabbia e vorresti gridare.

Vieni arrestata, ti interrogano a lungo e tu sei stanca, devi fare la pipì, non osi dirlo. Alla fine ti lasciano andare ma ti confiscano i beni: non possiedi più nulla.

Tranne Hemingway che, nel 1948,  incontri a Cortina; ha saputo di te e ti prende per mano:

<<Tell me about the nazi…>>.

E tu tocchi il sole.

Bukowski è invece l’ombra di un gatto persiano ubriaco e così ti dice di Ernest:

<<Hemingway si tenga le sue guerre e il suo coraggio. Io ho altre cose che accadono a me e a tutti quelli intorno a me. Milioni di uomini e donne che impazziscono e vengono assassinati centimetro per centimetro ogni giorno. Quello era il mondo reale. Quella era la morte. Perché capitava a me, lo riconoscevo e troppo spesso qualcuno mi diceva, Bukowski tu sei licenziato.>>

Eppure Bukowski muore di leucemia a settantaquattro anni, Hemingway suicida nel 1961:

<<Morire è una cosa molto semplice. Ho guardato la morte e lo so davvero. Se avessi dovuto morire sarebbe stato molto facile. Proprio la cosa più facile che abbia mai fatto… E come è meglio morire nel periodo felice della giovinezza non ancora disillusa, andarsene in un bagliore di luce, che avere il corpo consunto e vecchio e le illusioni disperse.>>

Da ventenne mi chiedevo come tu potessi essere stata amata da Hemingway, Pavese e Kerouac.

Indubbiamente eri affascinante, una donna eccezionale e insondabile come la balena bianca che avevi così sapientemente donato al pubblico italiano; ero sicura comunque che tu saresti stata in grado di mietere vittime d’amore anche a ottant’anni ed ero punta dalla gelosia per il fatto che tu frequentassi chi amavo.

Non potevo competere con la tua vita avventurosa né con le tue conoscenze: eri la porta di Narnia tra due mondi lontani  mentre io altro non ero che la semplice ragazza di una periferia in cui non passava mai l’1, l’unico autobus che conduceva in centro. 

Tuttavia il 18 agosto del 2009, quando moristi, constatai che era scomparsa una grande donna, una regina che, a differenza delle botulinate star televisive, quelle tigri femministe che utilizzano il corpo e il volto di un passato irrimediabilmente perduto in salotti televisivi politicamente scorretti, non aveva temuto la vecchiaia: alle radici del tuo successo c’era la testa, non l’aspetto.

Eppure in passato eri stata una bella donna, dannatamente bella, aveva detto Kerouac quando ubriaco partecipò a un’intervista della Rai. 

Fernanda, ora ti vedo come una mela raggrinzita ma dolcissima, una cyborg dal busto in acciaio che cela una profondità atlantiche.

L’immagine di te anziana è una figura a tutto tondo creata da ricordi, blog e articoli di giornale e video sul web: le vene stanche per le punture e le terapie ma la testa ancora piena di passioni, di voglia di leggere, di capire.

Sei stata una talent scout nel senso più pieno del termine, in America come in Italia: leggevi e leggevi poesie e romanzi di ragazzi, e tra questi ve n’ era uno, Cento cavalli scotennati, scritto appunto da Clemente e che lui non pubblicò  perché, quando la vita corrisponde alla penna, non è facile metterla in piazza.

O forse il mondo era radicalmente diverso da quello attuale e il voyeurismo era ancora considerato un peccato. 

Scrivere di te, Fernanda, oggi, in questo clima di superficialità estrema, fa male. 

Io credo che tu non accetteresti la banalità in cui siamo piombati: non ci hanno salvati i romanzi, non il cinema e neppure le canzoni ma il tuo Bob Dylan, cara Fernanda, ha vinto il Nobel della letteratura, spiazzando tutti, nel 2016.

Hai vissuto il diritto sospeso, in nome di una non ben precisata sicurezza, e allora mi rifugio nel tuo mondo, coraggiosa ragazza,  laureata in letteratura americana ai tempi del duce, quando il cocktail era una coda di gallo.

Lo sai, Fernanda? C’è un libro che ci accomuna, un libro da cui in qualche modo ha origine la nostra storia di scrittura: la tua, da traduttrice e critica letteraria e la mia, da scrittrice e … insegnante.

Insegnante, sì, e quanto dolore provo nel pronunciare questa parola! 

Ah, sapessi! 

Lascia stare, non adesso. Parliamo del libro: l’Antologia di Spoon River. Ti fu dato da Cesare Pavese in un momento in cui la letteratura italiana era solo retorica di regime.

Versi scarni, privi di pathos epico, un’epopea degli ultimi e la constatazione di morti ingloriose.

La morte. La testimoniano Omero, Virgilio, Christa Wolf dando voce ad  Achille piede rapido, Achille la Bestia:

<<Meglio essere l’ultimo degli uomini che il principe dell’Ade.>>

La poesia di Spoon River canta la vita attraverso la morte in un’America non ancora attanagliata dal conflitto mondiale; tu saresti nata due anni dopo, salutata dall’entrata degli USA nella Grande Guerra, da Lenin che spazza via il feudalesimo dalla Grande Russia.

Edgar Lee Masters sapeva di essere un rivoluzionario? Un inconsapevole Che Guevara seguendo il quale si finisce in carcere? Come avrebbe potuto una cultura totalitaria e patriarcale accettare questo?

E poi, immaginate:

siete una donna ben dotata,

e il solo uomo con cui la morale e la legge

vi consentono un rapporto carnale

è proprio l’uomo che vi riempie di disgusto

ogni volta che ci pensate – e ci pensate

ogni volta che lo vedete. 

Chi era costui che scriveva folli parole? Costui che osava? “Il maschio fascista dispone di giorno e di notte”, recita Sophia Loren nel 1978 diretta da un illuminato Ettore Scola.

Il libro, che tu leggesti in lingua originale,  ti aveva rapito.  Perché? Quanto può essere pericoloso un libro? Le parole minano le fondamenta di un Sistema perché i Sistemi basati sulla forza, sul ricatto e sulla propaganda sono giganti dai piedi d’argilla. Ed eccola qui la corruzione di Edgar, la tua corruzione:

Dove sono Elmer, Herman, Bert, Tom e Charley,

il debole di volontà, il forte di braccia, il buffone, l’ubriacone,

l’attaccabrighe?

Tutti, tutti, dormono sulla collina.

Uno morì di febbre,

uno bruciato in miniera,

uno ucciso in una rissa,

uno morì in prigione,

uno cadde da un ponte mentre faticava per moglie e figli –

tutti, tutti dormono, dormono, dormono sulla collina.

Dove sono Ella, Kate, Mag, Lizzie e Edith,

il cuore tenero, l’anima semplice, la chiassosa, la superba,

l’allegrona? 

Tutte, tutte, dormono sulla collina.

Una morì di parto clandestino,

una di amore contrastato,

una fra le mani di un bruto in un bordello,

una di orgoglio

infranto, inseguendo il desiderio del cuore,

una dopo una vita lontano a Londra e Parigi

fu riportata nel suo piccolo spazio accanto a Ella e Kate e Mag –

tutte, tutte dormono, dormono, dormono sulla collina. 

Mi pare di vederti mentre traduci su foglietti svolazzanti questi epitaffi che ti cambieranno per sempre.

E poi ti immagino intorno a un tavolo con Einaudi e Pavese: concepite l’ idea di intitolare l’opera S.River e una censura non troppo dedita alla lettura consente la pubblicazione dell’opera ritenendola l’agiografia di un santo! 

Chissà quante risate in Via Arcivescovado 7!

Pavese avrà spostato la pipa sull’angolo delle labbra e avrà sorriso dimenticando ogni tristezza: un sorriso alla Mastroianni.

Einaudi non saprei, un giusto, secondo me; rimandato in latino da Augusto Monti, non provò rancore e comprese che il suo professore era un esempio di valore morale e civile, e fu lui a introdurlo nella Confraternita.

I fascisti però se ne accorsero perché lessero, non erano tutti bifolchi, come vuole certa narrativa dell’attuale regime, e quelli erano versi che lasciavano segni profondi.

Tutto sommato è un miracolo che non ti abbiano fatto bere la cicuta.

L’epitaffio di Spoon River che mi donò a me stessa fu invece questo:

Ebbene sì, Emily Sparks, le tue preghiere

non furono disperse, il tuo amore

non fu del tutto vano.

Qualunque cosa io sia stato nella vita

lo devo alla tua speranza che non disperava di me,

al tuo amore che non smise di vedermi buono.

Cara Emily Sparks, lascia che ti racconti la mia storia.

Sorvolo sugli effetti di mio padre e mia madre;

la figlia della modista mi ha messo nei guai

e sono andato in giro per il mondo,

ho attraversato ogni sorta di pericoli,

vino, donne, i piaceri della vita.

Una sera, in una stanza di Rue de Rivoli

stavo bevendo vino con una cocotte dagli occhi neri

e le lacrime mi inondarono gli occhi.

Quella pensò che fossero lacrime d’amore e sorrise

al pensiero di avermi conquistato.

Ma l’anima mia era distante tremila miglia di lì,

nei giorni in cui eri la mia maestra a Spoon River.

E proprio perché non potevi più amarmi

né pregare per me, né scrivermi delle lettere,

in tua vece parlò l’eterno silenzio.

Cesare Pavese trovò quei versi in un quadernetto in casa tua, ti guardò e disse:

<<Ah!>>

Li prese e li portò ad Einaudi e quell’”Ah!” fu una garanzia.

La Storia, e non un qualsiasi astro, determina il destino di una persona.

Eri a cavallo con Hegel? Ti vedo sul cavallo di Hegel a cucire due mondi con un filo d’inchiostro.

La globalizzazione letteraria è l’unica rivoluzione non violenta.

Nel 1956 ti fu restituito il passaporto che il regime ti aveva confiscato e hai potuto viaggiare.

India e America, su di te prevalse la seconda.

Erano i tempi della Beat Generation.

Dopo anni di regime non avresti potuto non amare la Beat, ti ci  immergesti senza esserne travolta: non usasti droghe, non passasti da un letto all’altro per affermare la tua protesta, applicasti il tuo super io vittoriano come strumento di attenta analisi e conoscenza,  modificasti strutturalmente la critica letteraria liberandola da considerazioni estetiche e comprendendo l’inossidabile fusione tra vita e letteratura.

Ah, Fernanda! Il mondo attuale è una prigione di ghiaccio grigio!

Non ci voglio pensare! 

Mi scendono ancora lacrime che bucano il volto. 

E tu? 

Chissà a cosa pensi adesso. Forse non pensi, non so neppure più se credere al materialismo o alla spiritualità e tra i due il primo mi pare il male minore perché annienta la sofferenza.

Stanno accadendo cose che vanno oltre l’umana cattiveria e l’uomo, a cui  tu guardavi con speranza, è diventato quel vile homo oeconomicus preannunciato da John Stuart Mill e temuto da Aldous Leonard Huxley.

L’uomo è perduto.

Tu, vittoriana e beat al tempo stesso, determinata e ribelle, non avresti mai tollerato uno Stato in cui l’insegnamento e il diritto all’istruzione sono nuovamente subordinati a una tessera, non avresti mai immaginato che la Storia  rinnovasse a tal punto i propri vizi e dalla parte antifascista.

Bastardi!

Voglio strapparvi il cuore coi denti, masticarlo e sputarlo mentre i vostri figli gridano e mi odiano! 

Guarda Pavese. Non voleva firmare l’iscrizione al Partito Fascista, lo convinsero madre e sorella. Il rapporto tra Pavese e il fascismo è irrisolto, tu lo sai meglio di altri, quanto ha interferito con la sua morte?

Ci sono firme che uno in coscienza non può fare.

Se non firmi però rinunci al lavoro e stai male. 

Penso alle parole che Hemingway ti scrisse: “Non ti arrabbiare, lavora”; cerco di renderle mie ma non è semplice. Non so neppure se questa biografia sarà pubblicata o se verrà considerata politicamente scorretta; ma posso scrivere della Fernanda di allora mettendo a tacere la me di adesso?

Mio figlio minorenne scappa di casa un giorno sì e l’altro pure: vuole il vaccino per essere uguale agli uguali.

Comando io, lui in silenzio mi condanna.

Pensa che io sia una criminale o una folle? I miei la prima, lui e la piccola la seconda.

Solo la danzatrice mi crede.

Ah! Perché non posso suicidarmi? Come Jacopo Ortis: un suicidio eroico.

Li devo proteggere anche se non mi capiscono.

Non prendo il Covid. La lotta mi vuole guerriera.

 Non sono ancora in carcere, certo, questo no, e ciò mi dà la speranza e l’illusione di poter scrivere liberamente.

Ti saresti arrabbiata a conoscer la mia storia o forse semplicemente stupita? 

Come ti stupisti quando il tuo professore, Federico Oliviero,  ti impedì di proseguire la tesi su Walt Whitman perché riteneva che quei versi poco si addicessero a una signorina perbene.

Il sesso contiene tutto, corpi, anime, significati, prove, purezze, squisitezze, –proclamava Whitman e ciò era inaccettabile in un’Italia in cui persino l’intimità era dettata da rigidi canoni, in cui persino la trasgressione al bordello era controllata dallo Stato – risultati, pronunciamenti, tutte le speranze, beneficenze, conferimenti, tutte le passioni, amori, bellezze, piaceri della terra, tutti i governi, i giudici, gli dei. 

Oppure:

Urrà per coloro che hanno fallito!

E per coloro le cui navi da guerra sono affondate in mare!

E per quegli stessi che sono affondati in mare!

E per tutti i generali che hanno perso le loro battaglie!

E per tutti gli eroi sopraffatti!

E, ancor peggio:

Penso a come una volta giacemmo,

un trasparente mattino d’estate,

come tu posasti la tua testa

di per traverso sul mio fianco

ti voltasti dolcemente verso di me,

e apristi la camicia sul mio petto,

e tuffasti la tua lingua sino al mio cuore snudato,

e ti stendesti sino a sentire la mia barba,

ti stendesti sino a prendere i miei piedi.

Il tuo professore conosceva il poeta, quel suo sguardo franco da druido di versi e d’amore, quei capelli argentei e lunghi, così lontani dalle pettinature di regime.

Chissà, che se lo leggesse di nascosto? Di notte? Che temesse persino di confidarlo al prete?

<<Scabroso. Signorina, questo Whitman è scabroso. Non potete davvero pensare di proporlo in una tesi, se foste un giovanotto si potrebbe capire ma una futura madre …>>.

Lo hai guardato con occhi ironici e segretamente taglienti, hai accettato di analizzare Moby Dick e ne sei rimasta rapita: Call me Ishmael, che incipit meraviglioso! Tre parole ti immergono in Achab, nella sua ossessione distruttiva, nell’attaccamento alla vita di Ishmael. 

Che cosa c’è di più scabroso di Melville?

Io me lo chiedo e anche tu, stremata dal lavoro, con la tua camicia da notte di seta e il tuo carrè bombato, lo hai capito:

<<Ecce homo>>.

E, perché no, ecce America.

Fernanda: una vita d’avventura, una vita da pioniera.

Cerco i suoi tratti nei versi di Cesare Pavese, l’uomo che le spiegava Dante e la incantava negli anni Trenta, l’uomo che lei – negli anni Quaranta – rifiutava.

                               Così trasalisci tu pure

al sussulto del sangue. Tu muovi il capo

come intorno accadesse un prodigio d’aria

e il prodigio sei tu. C’è un sapore uguale

nei tuoi occhi.

Lo scrive Pavese ne L’estate, in Lavorare stanca, e ancora ne Il Notturno:

La collina è notturna, nel cielo chiaro. 

Vi s’inquadra il tuo capo, che muove appena 

e accompagna quel cielo. Sei come una nube 

intravista fra i rami. Ti ride negli occhi 

la stranezza di un cielo che non è il tuo.

[…]

Tu non sei che una nube dolcissima, bianca 

impigliata una notte fra i rami antichi.

Frugo nella tua vita, Fernanda, e spero che tu mi possa perdonare.

Clemente ti ricorda decisa e severa, mi racconta che la tua indagine non faceva sconti alla letteratura italiana: fantasmagorica, psicologica ma priva di affondi nella vita reale.

Ritenevi che gli scrittori italiani si fossero limitati a sostituire all’ipotassi la paratassi ma che, in fin dei conti, non avevano migliorato il panorama letterario il quale continuava ad essere ripetitivo e barocco.

In realtà, Fernanda, pubblicare romanzi è sempre più difficile. Lo sai anche tu, hai dovuto lottare per portare la Beat Generation in Italia. Sai cosa penso? I tempi sono maturi per qualche beatnik europeo: in un’Europa in cui non ci si può muovere, girare in autostop con un sacco a pelo in spalla sarebbe la più grande ribellione. 

Perché, come ti ha detto Kerouac, in autostop si conosce la gente.

Il bisogno di comunicare degli anni Cinquanta è stato sostituito col distanziamento sociale: da due anni i bambini giocano al parco con la mascherina. 

Si ha paura di morire, come se la Morte temesse lo scudo fragile di una mascherina!

Cosa ne penserebbe Neal Cassidy? Quel Neal che già si stupì di te:

<<Tu non bevi, non fumi, non ti droghi; perché mi hai voluto conoscere?>>  e tu rispondevi che volevi conoscere l’energia vitale che scorreva nelle vene di Kerouac.

Tu definisci Kerouac il genio assoluto e disperato, l’uomo che chiede a Dio di mostrargli un luogo. 

<<Era bellissimo: gli occhi blu dipinti di blu e il volto da pittura del ‘300>>.

Racconti le sue tribolazioni, la fatica di pubblicare On the road, romanzo in cui la geografia d’America diviene poesia e la poesia jazz:

È il mondo troppo grande che ci sovrasta, è l’addio. Ma intanto, ci si proietta in avanti verso una nuova, folle avventura sotto il cielo. Perché ci sono troppe cose che mi piacciono e mi confondo e mi perdo a correre da una stella cadente all’altra fino allo sfinimento.

Il conflitto nucleare che temevano i beatnik non c’è stato, la guerra fredda è finita. Tu l’hai vista finire in un muro in frantumi.

Quella guerra fredda.

Ora ce n’è un’altra che vede sulla scacchiera Usa, Russia e Cina.

E in Europa, nella tua Europa che annaspa a fatica, il potere è in mano a organismi transnazionali non europei, e per questo è così difficile combattere:

i nazisti, i fascisti erano di carne ed ossa, qui l’usurpatore è invisibile.

Ci sarà una nuova guerra? Che tipo di guerra? Manca il gas e le centrali a carbone producono energia elettrica.

<<Non si può combattere contro la Russia d’inverno>> ha detto il nostro premier ma i carri armati sono già in Ucraina.

Giulio Casale ti ha raccontata in uno spettacolo dal titolo bellissimo: La canzone di Nanda. 

L’ho guardato e l’ho riguardato con curiosità e con tristezza: Dylan, Tenco e De André sono stati spazzati via da rapper che inneggiano alle Jordan! Vivo in periferia, te l’ho detto, e la più grande ambizione di un giovane è far soldi per ricoprirsi di outfit costosi.

I rapper che mostrano scintillanti denti d’oro sono cattivi ma non sono ribelli: sono drammaticamente allineati e sparano minchiate.

Noi del G8 abbiamo perso: loro vogliono le Jordan e le vogliono anche i miei figli ormai reificati.

Ha vinto il consumismo, non ha vinto la Beat.

Il Sistema ha educato e il Sistema è amato e acclamato. 

E’ rimasto l’amore?

Alessandra Giordano


Sandro, Benito, Pier Paolo: riscuote il banco neoliberista, come in ogni gioco d’azzardo

La fiamma tricolore di Fratelli d’Italia insieme al garofano rosso del Partito Socialista Italiano: non ha vinto Mussolini ma neppure Pertini alla fine.

Del resto è stato chiaro fin da subito: gli Americani consentivano la sfilata delle bandiere rosse mentre firmavano patti con i grandi industriali, la mafia, la politica.

Per questo è stato ucciso Pier Paolo Pasolini, questa è l’interpretazione che viene data da Rosa Johanna Pintus e Marco Bracco nei testi scritti e drammatizzati per il 15 giugno presso l’Aula Magna del Dipartimento di Scienze Politiche durante una performance organizzata da Hermes Movie per il centenario della nascita di Pasolini.

Simone Grande e Christian Adorno Bard interpretano Pino Pelosi e Pier Paolo Pasolini- Foto Nazar Fedunyk

Così inizia Fabula, la performance portata in scena da Hermes Movie, con una lettera a Laura Betti, interpretata da una bravissima Antonella Rebisso:

Cara Laura, sono tornato. Come sta andando il film nella
terra del socialismo reale? Mi sembra di vederti. Quanto ti
lamenti per il cibo uguale per tutti? Amore mio, sei
perdonata! Spero di vederti presto, sto scrivendo un nuovo
film, un attacco al capo dello Stato, anche lui colluso con i
poteri, con la borghesia, sta sacrificando l’Italia al migliore offerente…

Fabula, Rosa J. Pintus-Marco Bracco

E la condanna è ancora più forte in quel monologo di Pasolini

in cui la Pintus ha picchiato duro buttandoci dentro tutta la sua esperienza nella periferia e tutta la sua rabbia per un Italia che non riconosce più come sua.

Christian Adorno Bard

Una rabbia che non poteva non essere invasiva e che l’ha resa in qualche modo

la naturale erede di Pasolini benché lei non lo volesse.

Marco Bracco

Claudio Patanè, compositore e chitarrista, è il commento musicale di Fabula-Foto Nazar Fedunyk

Di nuovo, come in Avanti Avanti!, abbiamo in scena il coro perché il rapporto con la tragedia greca non è mai stato reciso né da Pasolini né dalla Pintus ed è Remo Viazzi, professore di greco prima del Liceo Mazzini e ora del Liceo Classico D’Oria, a raccontare le suggestioni e le connessioni che si creano sulla scena.

Rosa Johanna Pintus, Marco Bracco, Remo Viazzi

La performance è forte nel linguaggio, spietata nelle parole. Nella società Lgbt Pasolini crea ancora imbarazzo, fastidio, anche se probabilmente si sarebbe cercata un’altra scusa per farlo fuori.

Coi decreti delegati la Scuola è morta, si è sparata un colpo
in bocca e non lo sa. Bisogna essere buoni (ride), fingere il figlio dell’operaio uguale al figlio dell’avvocato! Li portiamo a teatro, in un bel teatro borghese ove le nore si autodeterminano e non sono più bamboline di mariti e di papà:le nore borghesi ovviamente, le altre a fare le puttane per aver l’ultimo blue jeans! Ma dico! Ci siete mai stati tra i casermoni popolari ove il tempo scorre lento nelle piazze e nessuno lavora? Due birre, una canna, una donna e si è felici se non ci si ammazza per quella donna: a volte la si condivide mentre gli occhi osservano il sole che danza.

Christian Adorno Bard è il Pasolini di R.J.Pintus-Foto Nazar Fedunyk

E i
ragazzi di vita non è che siano meno maschi perché danno il
culo. Quello è un lavoro, che c’entra! Poi coi soldi ti
riempiono la ragazza di gioielli e collant.

Fabula, R.J.Pintus e Marco Bracco

Pasolini, ed è chiaro, e Avanti Avanti!

Giovanni Capano è l’Edipo di Pasolini (Christian Adorno Bard) in Affabulazione-Foto Nazar Fedunyk

Quale relazione c’è tra Sandro, Benito, Nino, Marcello e Pier Paolo? La sceneggiatrice di Hermes Movie ce lo spiega citando l’Auryn de La storia infinita:

tutto ciò che scrivo accade, tutto ciò che accade io lo scrivo.

R.J. Pintus cita M.Ende

La spiegazione più prosaica, più puntuale e meno onirica arriva dal regista Marco Bracco che, commentando anche i nuovi risultati elettorali, afferma:

Riuscireste voi a distinguere le parole di Mussolini da quelle di Pertini se io non vi rivelassi l’autore? La politica è un’arte difficilissima tra le difficili perché lavora la materia inafferrabile, più oscillante, più incerta. La politica lavora sullo spirito degli uomini, che è un’entità assai difficile a definirsi, perché è mutevole. Questo è Mussolini e aggiunge: “Mutevolissimo è lo spirito degli italiani. Quando io non sarò più, sono sicuro che gli storici e gli psicologi si chiederanno come un uomo abbia potuto trascinarsi dietro per vent’anni un popolo come l’italiano. Se non avessi fatto altro basterebbe questo capolavoro per non essere seppellito nell’oblio. Altri forse potrà dominare col ferro e col fuoco, non col consenso come ho fatto io. La mia dittatura è stata assai più lieve che non certe democrazie in cui imperano le plutocrazie”.

Marco Bracco

Le parole di Mussolini appaiono modernissime oggi in un sistema in cui il Deep State decide tutto e sostituisce alla giustizia delle democrazie l’efficienza di uno Stato-azienda di cui Monti prima e Draghi adesso sono i perfetti esecutori.

E Pertini? Colloca anche il Patto Atlantico, strumento di dominio economico poiché la guerra genera guerra. Pertini lo sapeva ed era contrario al guinzaglio di una Nato liberista che avrebbe, prima o poi, minato il miracolo socialista in Italia:

Noi siamo contro questo Patto Atlantico dato che esso è in funzione antisovietica. Perché non dimentichiamo, infatti, come invece dimenticano i vostri padroni di oltre Oceano, quello che l’Unione Sovietica ha fatto durante l’ultima guerra. Essa è la Nazione che ha pagato il più alto prezzo di sangue. Senza il suo sforzo eroico le Potenze occidentali non sarebbero riuscite da sole a liberare l’Europa dalla dittatura nazifascista.

Sandro Pertini

Dunque tutto quello che Pasolini ha scritto e filmato, ciò che lo ha condotto a morte proprio mentre progettava un artistico J’accuse che denudasse i giochi della politica di un’Italia colonia d’altri, sta avvenendo e oggi partiti opposti siedono senza pudore al medesimo tavolo fingendosi nemici.

Ci si chiede quale sia il potere decisionale di codesti partiti e, ormai, di gran parte dei giornalisti: le ultime imprese della nostra gloriosa repubblica sono semplicemente agghiaccianti: trattamenti sanitari obbligatori, propaganda e invio di armi.

Sanzioni antieuropee come l’uomo che si taglia i gioielli per far dispetto alla moglie: il rublo sale e l’euro scende.

Antonella Rebisso interpreta un’affranta Laura Betti

Fascisti? Il fascismo attuale è il vero mostro; i valori borghesi, quelli da combattere sempre, importati dai Liberatori con la cioccolata! Valori molto diversi e distanti dal regime mussoliniano ma molto più
adatti a uccidere gli animi. E allora io faccio i film. Perché? Perché ne ho bisogno. Facendo i film esprimo me stesso, o li faccio o mi suicido. Perché voi avete degenerato il sistema educativo in nome di un’uguaglianza che non c’è, che è gratitudine, sudditanza. Mi chiedete come possiamo allontanare il rischio e il pericolo prodotti da questa società. Si è fatto tardi, magari lasciatemi le domande, mi
serve un po’ di tempo per ragionarci. Come sapete per me è più facile scrivere che parlare.

Fabula, Rosa J. Pintus e Marco Bracco

In Avanti Avanti! Rosa Johanna Pintus e Marco Bracco raccontano i comuni ideali di Socialismo e Fascismo e le loro necessarie e drammatiche differenze ma, soprattutto, la storia di un Paese che si è illuso di una possibile liberazione e che oggi si trova a fare i conti con il suo status di colonia che deve riverire il padrone mentre l’unica forza, la nostra Italia, la deve trovare in se stessa.

Alessandra Giordano

Ricorda che questo progetto, per essere libero, ha bisogno del tuo contributo. Se puoi dona almeno un euro alla nostra campagna di crowdfunding.


Humanae litterae et infamia: l’Italia e l’Europa verso la damnatio memoriae dei morti e l’apartheid dei vivi

Humanae litterae, come letteratura, e infamia, come cattiva reputazione. E’ in atto un tentativo di damnatio memoriae dei morti (gli autori e gli artisti) e di apartheid dei vivi (gli sportivi e tutto ciò che rappresenta la Russia).

“Siamo fuori di testa ma diversi da loro”, penso ai Maneskin mentre l’epurazione ha inizio e io ancora fatico a crederci.

Si può davvero sanzionare la cultura di un popolo e tenersi il gas? Ancora una volta il dio dell’economia vince su tutti gli altri e io voglio solo sperare che Tolstoj avesse ragione quando sosteneva che

Dio esiste ma non ha alcuna fretta di farlo sapere.

Lev Tolstoj

Be’, io credo però che adesso questo Dio debba farsi vedere perché il mondo che ha creato si sta suicidando e il decantato libero arbitrio, per dirla con Tucidide, è solo l’utile del più forte.

Eppure non mi dovrei stupire di fronte a questo maldestro tentativo di damnatio memoriae, di fronte al professor Paolo Nori, che magari si è pure vaccinato per amor di insegnamento, e che adesso viene censurato in quanto reo di tenere un corso di letteratura su Dostoevskij!

Adesso siamo tutti ipocritamente ucraini. Adesso ci interessiamo di un Paese di cui abbiamo più volte insultato le donne in fuga:

Vengono qui per rubarci gli uomini, per manipolare i nostri vecchi!

…vox populi

Quando insegnavo al Cpia ho visto ragazze e donne ucraine piangere perché veniva negato loro il permesso di soggiorno, le ho viste spendere i pochi soldi ottenuti lavorando da badanti con avvocati incaricati per i ricorsi.

Ecce Italia: un tritacarne neoliberista che ora salva chi ha ucciso in vista di qualche profitto nascosto.

Ma adesso siamo tutti bravi, tutti solidali. Con gli Ucraini perché ci servono mentre i neri li lasciamo annegare in mare.

Questo è! Togliamoci le aureole.

I cattivi sono i Russi, tutto ciò che è russo corrompe.

Diceva Leonid II’ic Breznev:

Noi dichiariamo con la massima responsabilità: non abbiamo pretese territoriali verso chicchessia, non minacciamo nessuno, siamo favorevoli al libero sviluppo dei popoli ma nessuno si provi a usare con noi il linguaggio degli ultimatum e della forza.

Breznev, rapporto al XXIV Congresso del PCUS

Basterebbe togliere le basi Nato dai confini dell’Ucraina e Putin ritirerebbe le truppe ma ormai il conflitto è partito e l’industria delle armi, che con il Coronavirus aveva perso il suo posto al sole, deve guadagnare i soldi persi con la demilitarizzazione dell’Afghanistan.

I Russi sono i vecchi comodi nemici dell’Europa e dell’America in attesa dei Visitors, dei Rettiliani o di chissà che altro.

Io però con i Russi (gli autori) ci sono cresciuta, sono stati i miei zii mentre i padri erano greci: i Russi sono arte, danza, musica, letteratura.

Dobbiamo cancellare tutto?

Sergei Loznitza non ci sta, non si giudicano le persone dal passaporto, dice, non facciamoci prendere dalla follia. E’ un regista ucraino e non condanna i Russi in toto.

Invece la follia incombe: li condanna invece Fiera Ragazzi di Bologna, li condanna persino il Comitato Paralimpico che impedisce agli atleti Russi e Bielorussi di partecipare ai giochi.

In nome dell’inclusione?

Scrive Chiara Baldi su La Stampa:

Ora l’ateneo comunica che ci ha ripensato: «L’Università di Milano-Bicocca è aperta al dialogo e all’ascolto anche in questo periodo molto difficile che ci vede sgomenti di fronte all’escalation del conflitto. Il corso dello scrittore Paolo Nori si inserisce all’interno dei percorsi “Between writing”, percorsi rivolti a studenti e alla cittadinanza che mirano a sviluppare competenze trasversali attraverso forme di scrittura. L’ateneo conferma che tale corso si terrà nei giorni stabiliti e tratterà i contenuti già concordati con lo scrittore. Inoltre, la rettrice dell’Ateneo incontrerà Paolo Nori la prossima settimana per un momento di riflessione».

Chiara Baldi

La Bicocca ci ha ripensato…e vissero felici e contenti? Allora perché quel momento di riflessione? Un sinistro controllare i contenuti di un corso?

La Scuola e l’Università sono arcistufe di una cultura declinata alla politica: prima la campagna contro studenti e docenti no vax, ora l’attenzione verso tutto ciò che rappresenta il nemico russo (ma non lo faceva l’Urss nei confronti dell’Occidente?).

La Russia non è Putin: molti Russi contrari a quest’uomo sono stati arrestati ma questo all’Europa non importa, importa soltanto esportare armi e alimentare un conflitto mentre è chiaro come questi governanti non abbiano mai letto Delitto e Castigo.

Il grado di civilizzazione di una società si misura dalle sue prigioni

Fedor Dostoevskij

Ma che ve lo dico a fare…

Alessandra Giordano


Che fine ha fatto Jessica Hyde? L’ombra della paura per una serie no vax

Che fine ha fatto Jessica Hyde, l’eroina della distopica Utopia? Le notizie in rete non sono tranquillizzanti ed è la seconda volta che il progetto Utopia naufraga.

Un portavoce dello streamer ha purtroppo dato la notizia che nessuno avrebbe voluto. Il thriller di cospirazione apocalittico di Gillian Flynn, lanciato nel periodo di Halloween, non tornerà per una seconda stagione

Playblog.it

Un miracolo: le ragioni di opportunità hanno, per una volta, la meglio sulle ragioni economiche o è una pia illusione? Playblog.it prova a cercare gli impedimenti tecnici per la mancata trasmissione, da parte di Amazon Prime, della seconda serie: forse è stata poco apprezzata, forse Amazon ritiene di non investire su questo progetto.

Descriviamo brevemente la trama per i non appassionati del genere:

Jessica Hyde ( Sasha Lane) non è soltanto il personaggio di un fumetto ma una ragazza utilizzata come cavia per sperimentare alcuni virus.

Il padre della ragazza nasconde informazioni sugli esperimenti all’interno di un comic soon.

L’antagonista di Jessica e dei suoi amici Nerd è il Dottor Christie, l’ideatore di una carne vegetale che potrebbe fermare lo sfruttamento delle risorse della terra.

Un personaggio poco chiaro, estremamente ricco, eccentrico e determinato nella realizzazione di un piano diabolico: orchestrare una finta pandemia per far precipitare la popolazione nel panico; l’azienda del dottor Christie finge a quel punto di trovare il vaccino ma qual è l’inquietante effetto collaterale del vaccino venduto a caro prezzo ai governanti? Il composto chimico sterilizza i vaccinati ponendo fine al sovraffollamento del pianeta.

Va detto, per gli appassionati, che Utopia nasce come serie inglese. Le differenze, rispetto all’originale, sono molte, tuttavia Amazon, col suo remake, ha avuto il merito di divulgare una trama geniale già in epoca Covid: la serie è uscita ufficialmente, in un Amazon ancora libero, il 30 0ttobre 2020.

Perché allora ci sono state delle remore per quanto riguarda la seconda serie? Sconvenienza? Pressioni? Censura? I temi in effetti sono forti e davvero troppo vicini a ciò che stiamo vivendo.

A tvserial.it la sceneggiatrice Gillian Flynn ha affermato che si sarebbe detta disposta a superare il tema della pandemia se Amazon si fosse dichiarata interessata alla serie.

La Flynn non è una che si lascia intimidire ma sa che è molto difficile portare avanti la trama originaria adesso:

Me lo aspettavo! Mi piace scrivere cose che suscitano reazioni forti e aprono dibattiti; so però che parlare di pandemia dentro una reale situazione pandemica può creare apprensioni.

Gillian Flynn

Scrive Ben Travers in IndieWire:

Gillian Flynn - Wikipedia

“Utopia’s” heroes set out to destroy dangerous vaccinations — an idea that, on its own, sounds far more disturbing right now than it did in 2013.

Di fatto la seconda serie di Utopia sta incontrando notevoli perplessità perché i punti di contatto con l’attualità sono troppi e una parte dell’opinione pubblica, quella maggiormente indipendente, rifiuta la campagna unidirezionale di informazione a cui è quotidianamente sottoposta.

Ci troviamo nella condizione politico-psicologica per cui una serie ha la capacità di far tremare la costruzione delle grandi case farmaceutiche?

Il timore, di questo passo, è che anche il celebre Cassandra Crossing, film di fantapolitica prodotto nel lontano 1977 che accusa l’OMS di coltivare virus pandemici, possa essere considerato un’opera d’arte deviata.

Le immagini del rogo dei libri voluto da Hitler durante la nazificazione delle menti tedesche sono già così lontane?

Buon vaccino a tutti.

Rosa Johanna Pintus

Foto tratte da utopiafandomtv.com e da recensioni Amazon


Hippie Hip-pie, un corto si interroga: esiste libertà nella ribellione?

Hippie Hip-pie è un cortometraggio diretto dal regista Marco Bracco; difficile, dissidente all’estremo, il film comincia come un sogno ambientato nei luoghi più intimi del paesaggio ligure, un omaggio a uno dei momenti più poetici e colorati della storia: la vita dei figli dei fiori narrata attraverso la voce “extradiegetica” di Giovanni Funiati che si contrappone e si fonde con una musica completamente diegetica nella quale fluttuano i personaggi. Il  codice espressivo, nella coraggiosa scelta di Marco Bracco, è quello del linguaggio non verbale e non è un caso che i personaggi siano privi di nome. 

L’impressione è quella di una visione sublime, di una bellezza panica in cui esseri umani e natura convivono pacificamente senza prevalere gli uni sull’altra in una sorta di antica e contemporanea utopia che accosta la Beat Generation a Greta Thunberg raccontata dalle sapienti inquadrature di Marco Mastino, operatore e direttore della fotografia, e dalle immagini statiche di Alessandro Calza e Andrea Sclafani

Hippie Hip-pie

Al centro della vicenda vi è un gruppo di giovani idealisti, convinti che il culto della bellezza, la sua etica sia sufficiente, di per sé,a giustificare una scelta di libertà svincolata da regole borghesi. Con vesti colorate che, grazie al lavoro della costumista Sofia Minetti (ex modella per la prima volta sullo schermo) si fondono con le scenografie naturali, l’amicizia incondizionata, la solidarietà e la libertà sessuale i giovani vivono sulla strada, sotto il sole, leggeri come i loro abiti. 

Una macchina da presa priva di tabù fa cadere però, scena dopo scena, i veli di Maya che illudono la piccola comunità. Al sogno di una comunità agreste e autosufficiente che ha come fine una consapevole libertà individuale segue un risveglio drammatico, duro, doloroso di cui è emblema il personaggio interpretato da Simone Pastorino, un giovane marinaio che abbandona la vita militare per abbracciare il sogno hippy. Accompagnato dalle suggestive note e dalle parole di Scott McKenzie, Bob Dylan, Joan Baez, i Pink Floyd, i Beatles, i Rolling Stone, i Queen, Michel Delpech, David Bowie, The Kinks, Lou Reed e Patty Pravo, confuso tra le braccia di Asia Marcenaro e la violenta passione omosessuale il marinaio comincia ad affondare.

La marijuana e il sogno psichedelico, vissuto come espansione della personalità, vanno ben presto a sostituirsi alla spiritualità, ai momenti mistici,all’amore universale e il corpo e l’amore del giovane vengono mercificati per ottenere i soldi necessari alla sopravvivenza della comunità e al reperimento della droga.

Dunque, nel breve spazio di 28′ 43”, la narrazione cambia in modo brusco poiché quella libertà, cantata attraverso gli arrangiamenti musicali di Giovanni Arichetta con la partecipazione di Andrea Sclafani o danzata grazie alle coreografie di Mauro Graniti, diviene essa stessa una terribile prigione in grado di condurre i più deboli alla degradazione e alla progressiva perdita di sé.

Amara è quindi la constatazione del regista: in un mondo capitalista la scelta della libertà è soltanto un’illusione eppure, osservando la realtà odierna, drammatica e distopica, quello spirito libero entro ci rugge.

In effetti la vera trasgressione non è il percorrere la strada opposta a quella indicata dalla società o dal genitore ma il riuscire ad essere se stessi al di là della ribellione.

P. Tramonte

Il film sarà presentato nell’ambito di eventi diversificati non appena verranno meno le restrizioni relative al Covid 19

Rosa J. Pintus


La figura del padre in dialoghi di versi

a cura di Sergio Famulari

Nino, a mio padre

Quante cose mi hai insegnato, chiedendomi di capire,

spesso senza spiegarmi.

Hai sempre avuto una parola sola,

e arrivavi lì dove non immaginavo,

portandomici.Tra misteri

appena accennati, coincidenze,  tutele

e bevande ghiacciate,

mi asciugavi i capelli,

strofinandomeli dopo il mare,

che con te non faceva mai paura.

E il tuo titolo, “l’ingegnere”,

risuonava nelle strade e negli uffici,

senza mai ferire o ingombrare,

perché eri sempre con i deboli,

debole con i deboli

forte con i forti.

Quando ci siamo avvicinati,

dopo la mia fuga,

mi hai salvato 

raccontandomi di nuove strade,

scienza e fantasia

che raccoglievi nel tuo sentire “ sensitivo”.

Poi ti sei ammalato,

in quei bianchi corridoi e bui

ospedali,

ostinato e controcorrente.

Io non ho saputo proteggerti,

come hai fatto tu con me,

eppure il tuo ultimo sguardo,

ignoto, suadente ed indecifrabile 

lo hai regalato a me.

Rassicurandomi.

Dolce papà,

ci siamo tenuti la mano,

e mi hai trasmesso tutto, 

ma io ti devo dire ancora una cosa,

so che mi ascolti ancora.

Preparo io il caffè…….

Sergio Famulari

Infiniti sono stati gli autori e le autrici che hanno sentito il desiderio di dialogare con il padre, fosse o meno scomparso e questo desiderio si è fatto anche mio.

Troppo importante è per tutti noi la figura del padre ( e della madre), costante punto di riferimento, anche se solo in contrapposizione, nella nostra vita.

Immense, delicatissime ed ispirate sono le liriche che qui proponiamo, con scelta puramente soggettiva e giocoforza, quindi, incompleta ma doverosa considerando l’anno passato, i padri perduti, la normalità che ancora non giunge.

Ora che siamo prossimi al 19 marzo, festa del papà, le riflessioni da parte di scrive sono due : la prima è quella di amare il padre e tutti coloro che sono stati padri o punti di riferimento nella nostra vita; la seconda è questa, anche in considerazione della figura di San Giuseppe: di padre onnipotente ne abbiamo solo uno, per chi crede, tutti noi altri ci muoviamo a tentoni ma, se spinti dalla potenza dell’accettazione dei nostri limiti, saremo buoni padri (e buone madri).

Ed ora lascio la parola ai versi partendo da Stevenson, più noto certamente per i romanzi, che in questa poesia sembra voler giustificare al padre la scelta della scrittura.

Robert Louis Stevenson

Non dire di me che ho rinunciato

alle imprese dei padri e che ho fuggito il mare,

le torri che abbiamo edificato

e le lampade che abbiamo acceso

per chiudermi nella mia stanza

e giocare con la carta come un bambino.

Dì’ invece: nel pomeriggio del tempo

un figlio vigoroso  ha spolverato le mani

dalla sabbia di granito, e guardando lontano

lungo la costa mugghiante le sue piramidi

e gli alti monumenti catturare il sole che muore,

sorriso gonfio di gioia, e a questo compito infantile

ha dedicato, davanti al fuoco, le ore della sera.

Robert Louis Stevenson

Eugenio Montale, poeta del nostro territorio, scrive addirittura un poemetto: Voce giunta con le folaghe. L’ambientazione è quella del cimitero di Monterosso che diviene un limes tra le due dimensioni dell’uomo: quella terrena e quella ultraterrena.

Eugenio Montale

Poiché la via percorsa, se mi volgo, è più lunga

del sentiero

da capre che mi porta

dove ci scioglieremo come cera,

ed i giunchi fioriti non leniscono il cuore

ma le vermene, il sangue dei cimiteri,
eccoti fuor dal buio

che ti teneva, padre, erto ai barbagli,

senza scialle e berretto, al sordo fremito

che annunciava nell’alba

chiatte di minatori dal gran carico

semisommerse, nere sull’onde alte.

L’ombra che mi accompagna
alla tua tomba, vigile,

e posa sopra un’erma ed ha uno scarto

altero della fronte che le schiaragli occhi ardenti e i duri sopraccigli

da un suo biocco infantile,

l’ombra non ha più peso della tua

da tanto seppellita, i primi raggi
del giorno la trafiggono, farfalle

vivaci l’attraversano, la sfiora
la sensitiva e non si rattrappisce.

L’ombra fidata e il muto che risorge,

quella che scorporò l’interno fuoco

e colui che lunghi anni d’oltretempo
(anni per me pesante) disincarnano,

si scambiano parole che intenerito

sul margine io non odo: l’una forse

ritroverà la forma in cui bruciava
amor di Chi la mosse e non di sé,

ma l’altro sbigottisce e teme che
la larva di memoria in cui si scalda

ai suoi figli si spenga al nuovo balzo.

Eugenio Montale

Il dolore del ricordo percorre questi versi che sfociano addirittura in voci pascoliane:

– Ho pensato per te, ho ricordato

per tutti. Ancora questa rupe

ti tenta? Sì. la bàttima è la stessa

di sempre, il mare che ti univa ai miei

lidi da prima che io avessi l’ali,

non si dissolve. Io le rammento quelle
mie prode e pur son giunta con le fòlaghe

a distaccarti dalle tue. Memoria

non è peccato fin che giova. Dopo

è letargo di talpe, abiezione
                       che funghisce su sè… –

Eugenio Montale

La memoria è una voce che sembra andare e venire come le onde del mare e, se non fosse per la descrizione di un paesaggio così visibilmente ligure, l’atmosfera sembra quella disperata di Cime Tempestose. E ancora:

Il vento del giorno

confonde l’ombra viva e l’altra ancora

riluttante in un mezzo che respinge

le mie mani, e il respiro mi si rompe

nel punto dilatato, nella fossa

che circonda lo scatto del ricordo.

Così si svela prima di legarsi
a immagini, a parole, oscuro senso

reminiscente, il vuoto inabitato

che occupammo e che attende fin ch’è tempo

di colmarsi di noi, di ritrovarci…

Eugenio Montale

Anche un altro premio Nobel, Pablo Neruda, dedica una poesia al padre. A differenza di Stevenson, Neruda è uomo d’azione: perseguitato e probabilmente ucciso da un sicario di Pinochet, il poeta qui dialoga col padre “da uomo a uomo”.

Pablo Neruda


Terra dalla superficie incolta e arida
terra senza corsi d’acqua né strade
la mia vita sotto il sole trema e si allunga.

Padre, i tuoi dolci occhi non possono nulla
come nulla poterono le stelle
che mi bruciano gli occhi e le tempie.

Il mal d’amore mi tolse la vista
e nella fonte dolce del mio sogno
una fonte tremante si rifletté.

Poi… chiedi a Dio perché mi dettero
ciò che mi dettero e perché poi
incontrai una solitudine di terra e di cielo.

Guarda, la mia giovinezza fu un candido germoglio
che non si aprì e perde
la sua dolcezza di sangue e vitalità.

Il sole che tramonta e tramonta in eterno
si stancò di baciarla… È l’autunno.
Padre, i tuoi dolci occhi non possono nulla.

Ascolterò nella notte le tue parole:
…figlio, figlio mio …
E nella notte immensa
resterò con le mie e con le tue piaghe.

Pablo Neruda

Maria Luisa Spanziani coglie la luminosità e la dolce forza del padre ritraendolo in un ricordo importante.

Poetesse Italiane del Novecento: Maria Luisa Spaziani | Grado Zero

Maria Luisa Spaziani

Papà, radice e luce,
portami ancora per mano
nell’ottobre dorato
del primo giorno di scuola.
Le rondini partivano,
strillavano:
fra cinquant’anni
ci ricorderai.

Maria Luisa Spanziani

Il padre descritto da Salvatore Quasimodo è un padre che ruba, prendendola su di sé, la sofferenza.

Salvatore Quasimodo


Dove sull’acque viola
era Messina, tra fili spezzati
e macerie tu vai lungo binari
e scambi col tuo berretto di gallo
isolano. Il terremoto ribolle
da due giorni, è dicembre d’uragani
e mare avvelenato. 

Le nostre notti cadono
nei carri merci e noi bestiame infantile
contiamo sogni polverosi con i morti
sfondati dai ferri, mordendo mandorle
e mele dissecate a ghirlanda. La scienza
del dolore mise verità e lame
nei giochi dei bassopiani di malaria
gialla e terzana gonfia di fango.

La tua pazienza
triste, delicata, ci rubò la paura,
fu lezione di giorni uniti alla morte
tradita, al vilipendio dei ladroni
presi fra i rottami e giustiziati al buio
dalla fucileria degli sbarchi, un conto
di numeri bassi che tornava esatto
concentrico, un bilancio di vita futura.

Il tuo berretto di sole andava su e giù
nel poco spazio che sempre ti hanno dato.
Anche a me misurarono ogni cosa,
e ho portato il tuo nome
un po’ più in là dell’odio e dell’invidia.
Quel rosso del tuo capo era una mitria,
una corona con le ali d’aquila.
E ora nell’aquila dei tuoi novant’anni
ho voluto parlare con te, coi tuoi segnali
di partenza colorati dalla lanterna
notturna, e qui da una ruota
imperfetta del mondo,
su una piena di muri serrati,
lontano dai gelsomini d’Arabia
dove ancora tu sei, per dirti
ciò che non potevo un tempo – difficile affinità
di pensieri – per dirti, e non ci ascoltano solo
cicale del biviere, agavi lentischi,
come il campiere dice al suo padrone:
“Baciamu li mani”. Questo, non altro.
Oscuramente forte è la vita.

Salvatore Quasimodo

Camillo Sbarbaro coglie il padre nell’atto di sgridare la sorellina, un atto necessario ma contrario alla sua natura.

A mio padre

Padre, se anche tu non fossi il mio
padre, se anche fossi a me un estraneo,
per te stesso egualmente t’amerei.
Ché mi ricordo d’un mattin d’inverno
che la prima viola sull’opposto
muro scopristi dalla tua finestra
e ce ne desti la novella allegro.
Poi la scala di legno tolta in spalla
di casa uscisti e l’appoggiasti al muro.
Noi piccoli stavamo alla finestra.

E di quell’altra volta mi ricordo
che la sorella mia piccola ancora
per la casa inseguivi minacciando
(la caparbia avea fatto non so che).
Ma raggiuntala che strillava forte
dalla paura ti mancava il cuore:
ché avevi visto te inseguir la tua
piccola figlia, e tutta spaventata
tu vacillante l’attiravi al petto,
e con carezze dentro le tue braccia
l’avviluppavi come per difenderla
da quel cattivo ch’era il tu di prima.

Padre, se anche tu non fossi il mio
padre, se anche fossi a me un estraneo,
fra tutti quanti gli uomini già tanto
pel tuo cuore fanciullo t’amerei.

Camillo Sbarbaro

In Alda Merini infine il padre viene descritto attraverso un oggetto transizionale, il cappotto.


Il pastrano

Un certo pastrano abitò lungo tempo in casa
era un pastrano di lana buona
un pettinato leggero
un pastrano di molte fatture
vissuto e rivoltato mille volte
era il disegno del nostro babbo
la sua sagoma ora assorta ed ora felice.
Appeso a un cappio o al portabiti
assumeva un’aria sconfitta:
traverso quell’antico pastrano
ho conosciuto i segreti di mio padre
vivendoli così, nell’ombra.

Alda Merini

Buon San Giuseppe a tutti!

Sergio Famulari


La parola ‘bitch’,nel trap è accettabile?

Benedetta Paccamiccio

a cura di Benedetta Paccamiccio

Bitch significa cagna e non in senso animale ma volgarmente metaforico. Eppure questo è uno dei termini più utilizzati nel dissing trap, un genere di musica che si diffonde con facilità tra i giovani.

Questo nome sta di indicare un sottogenere del genere musicale ‘rap’,che si è sviluppato a partire dagli anni ‘90 del Novecento nei quartieri meno abbienti degli Stati Uniti ma, a differenza del rap che è legato a rabbia e revanchismo, il trap affonda le sue radici nel mondo della droga.

Questo genere di musica ha portato con sé delle nuove caratteristiche facendo rimanere senza parola gli artisti delle altre correnti musicali, proprio perché presenta degli elementi molto più crudi e reali rispetto ai temi da melodramma che riscontriamo nelle canzoni attuali.

Caratteristica del trap è sicuramente il proporre una sensibilità diversa dal sentire comune e indirizzata apparentemente solo a un gruppo preciso di persone,ovvero a coloro che in qualche modo si ritrovano anche in una minima parte in ciò che gli artisti esprimono attraverso le loro canzoni.

Il problema è che se gli artisti fingono e interpretano un ruolo, i giovani ne assorbono le parole in modo acritico e le considerano dogmi.

L’espressività è diretta,codificata in una finta libertà nei testi, in una grammatica semplificata e immediata che reca in prova esperienze  di tipo personale per permettere a chi ascolta di identificarsi in quei pensieri.

Argomenti quali il tema della droga adolescenziale, il disagio legato ai problemi economici o familiari  e  il tòpos  dell’abbandono genitoriale  che costringe l’artista ad affrontare la vita da soli e con il loro tipo di musica.

Ciò che più offende, e lo dico proprio nella giornata internazionale della donna, è l’epiteto costantemente dispregiativo legato al gentil sesso, il passaggio dalla sublimazione della donna angelo alla denigrazione della donna oggetto.

E questo, nel 2021, non è giustificabile da nessun codice.

Non per censura ma per buon senso, in una società in cui il femminicidio è all’ordine del giorno, sarebbe auspicabile vietare un linguaggio che ha tutte le caratteristiche dell’istigazione a delinquere.

Benedetta Paccamiccio


Marco Conte: dal Dolce Stil Novo alla Trap

Si chiama Marco Conte e viene da Cassano Magnago, Varese; è giovane ed è colto, me ne rendo conto dalla costruzione sintattica della frase, dall’utilizzo disinvolto del gerundio, dall’uso dei pronomi atoni impliciti.

Ne sono certa, è uno che:

sa di latino.

Promessi Sposi, A. Manzoni

Si tratta di un elemento importante e solo apparentemente in disarmonia con il suo modo di cantare:

Ebbene sì: ho studiato al liceo scientifico, mi sono laureato e adesso insegno letteratura e musica.

Marco Conte

Lo guardo attraverso Google Meet, e vedo un volto pulito, intelligente e coraggioso: nonostante l’insegnamento, mantiene due piercing ma talmente fini da risultare quasi impercettibili attraverso lo schermo.

Parliamo, ci conosciamo in quest’epoca di Covid attraverso i pochi pixel saldi del mio portatile: non è uno qualunque, il ragazzo.

Il suo incontro con la musica ha luogo sei anni fa quando si ritrova,un po’ per gioco, ad essere frontman della band pop punk The Fhackers :

Tempi belli, tempi di live e di pubblico: secoli fa.

Marco Conte

Si rende conto che ancora, nella sua vita, occorre mettersi in gioco: studia canto con Antonio Marino e Laura Ciriaco (The Voice 2017). Il palco lo rende vivo ma sperimenta anche la strada del songwriting non solo con Nyvinne (Sanremo Giovani 2018, Amici 2019) ma anche per vari artisti emergenti (Lisa Selmi, Giorgia Pastori, Adelia, Venere, Debora Ruggero).

Musa ispiratrice di Conte è la scuola in cui si trova a lavorare; cerca la chiave per accedere -lui giovane- ai giovani.

Il gap generazionale si sente, anche se lui, classe ’89, può essere considerato a pieno titolo un nativo digitale con un serio bagaglio analogico che gli ha fornito un saldo senso critico.

Le sue canzoni sono dense, forti. Si ascolti Sto:

Sto su uno squalo e mi bevo una Red Bull

Marco Conte

L’impatto è psichedelico, la musica attinge dai bit e dai sintetizzatori tipici del trap ma il testo?

Si percepisce un di più, uno strappo al codice della trap music: citando l’allucinazione, Marco Conte condanna i trapper che esaltano la droga, la violenza. Quale significato nasconde questa scelta?

Scrivo per i miei studenti, canto per i miei studenti. Sono abituati a questo codice; bene, utilizziamolo per comunicare altro.

Marco Conte

So cosa intende dire: anche io uso la scrittura per comunicare e In un posto sbagliato nasce dalle macerie della periferia ma non arriva perché quei ragazzi non leggono.

Per questo il nostro sceglie di distribuire musica gratuitamente: conta il messaggio, non il guadagno.

Non si può però ridurre conte al ruolo di trapper, la sua musica è sperimentazione.

In Frangia viene narrato l’amore, un amore disperato:

Non me ne fotte se

tu

hai

i miei baci ancora

sulla frangia,

le tue botte

spaccano le labbra

Frangia, Marco Conte

E io mi immagino un giovane Guido Cavalcanti che grida e scrive in un disperato Stil Novo.


Giovàri: una voce che accarezza

Torino- Timido e scontroso ma deciso; si rivela a dosi, una delle interviste più difficili perché Giovari, Giovàri per la precisione, non è uno che parla o che scherza, è uno che scrive e musica versi, anche i miei, ed è così che i nostri destini si incrociano: in un film e come in un film.

Già, perché ci troviamo impegnati sullo stesso set, a lavorare come ossessi su un soggetto del regista Marco Bracco: lui con la musica e io con le parole. Lunghi incontri su Google meet all’ombra del Covid: città diverse, empatia impossibile attraverso uno schermo e tempi risicati per conoscerci.

Sulla musica, per esempio, abbiamo idee radicalmente diverse: io che amo rap e trap, lui che risponde con tracce melodiche perché, pur essendo giovane, non si riconosce nella musica gridata dalla maggior parte dei suoi colleghi e preferisce il fingerpicking, una tecnica che vuole le dita direttamente sulle corde della chitarra, senza il plettro:

La musica giovane non si riduce al rap, al trap, alla rabbia gridata in 4/4. Musica che proviene dal cemento ma che spesso non riesce ad andare oltre: i 4/4 possono accarezzare ed esprimere la protesta senza grida.

Giovari

Poi avviene il miracolo: Giovanni Arichetta musica e canta i versi che io ho scritto e quei versi diventano altro: “Ah! Ecco”, penso, “così arrivano a tutti.” E forse il rapporto tra un paroliere e un musicista è una sorta di danza latina in cui conduce chi possiede la chitarra.

Al di là del film, che racconteremo un’altra volta e al di là di me, Giovàri ha da poco terminato il singolo Senza Barriere: un brano melodico, già presente su Spotify.

L’intervista, come dicevo, procede a fatica: per deformazione professionale (sono una docente amante della maieutica) so che Giovari è più di ciò che racconta, che per capirlo occorre prima fare un viaggio dentro di lui e poi tradurre in linguaggio verbale ciò che lui è, e non so neppure se ne ho colto lo spirito. Decido allora di ascoltare le sue canzoni, di spiare il suo profilo Instagram, e lì sorride perché suona: non solo la chitarra ma anche il pianoforte.

La sua musica è fisica, sensuale e le sue canzoni rivelano l’immagine di un maschio sano, in grado di cavalcare la passione erotica con occhi d’amore, di piangere forse ma mai di insultare o uccidere la donna: un buon punto di partenza se si pensa che siamo passati dall'”Ehi, bambola” all'”Ehi, bitch”, che manco vuol dire puttana ma proprio cagna! Non dimentichiamocelo l’ospite di Sanremo osannato da Amadeus e non stupiamoci se l’Italia uccide le donne.

Gli chiedo quando si sia accorto della sua passione per la musica:

Dopo una delusione amorosa, chiuso in cameretta con la mia chitarra, ho scritto la mia prima canzone, più come uno sfogo, una sorta di liberazione, in realtà non per farne proprio una canzone. Ho però così trovato il modo per stare meglio e ho continuato a farlo perché ogni volta che ne sentivo la necessità i pensieri divenivano parole e poi strofe accompagnate e aiutate dalla musica di sottofondo.

Si tratta di una rivelazione sulla via di Damasco perché Giovari era combattuto da un’altra passione: quella per il calcio.

In poco tempo, incoraggiato dai suoi familiari, Giovari ha capito che ciò che scriveva e musicava era anche orecchiabile.

Così ho cominciato a studiare canto, a continuare gli studi di chitarra che già da anni avevo intrapreso. La necessità di sfogarsi ha fatto venir fuori tutto ciò. Una grandissima passione per la musica che pian pian sta diventando una professione.

Una gestualità forte e marcata è presente anche in questo artista poiché il bisogno di comunicare e di essere compresi è la linfa che nutre i performer; tuttavia in Giovari il gesto non riduce la musica a mera ancella e la voce diviene canto.

La rabbia si può esprimere a carezze, non necessariamente a pugni o attraverso kick ripetitivi, dissing e sintetizzatori. Ci vuole rispetto anche nella rabbia però…siamo nel 2020 dove la ricerca di un mondo senza barriere è all’ordine del giorno.

La musica, anche se non più da protagonista, tiene sempre il passo coi tempi ma spesso questo è un compromesso inaccettabile ed è meglio rallentare, riflettere, ponderare:

Ma non riesco a stare a tempo,

questo cuore è troppo lento.

Ghiaccio, Giovari

Gli chiedo in che senso la musica non sia più protagonista e perché la veda piuttosto come un accessorio.

In quest’era di consumismo si producono quintali di musica usa e getta e troppo spesso non contano le note ma l’outfit su cui poi l’artista guadagna. Se pur vi è qualcosa di buono, qualche verso geniale nei testi, questo viene spremuto fino alla fine e svuotato. Il ciclo vitale di queste canzoni è breve, diventano vecchie in un attimo, obsolete.

In effetti, i pezzi che hanno preceduto il XXI secolo sono tutt’ora hit:

Eravamo abituati ad ascoltare un pezzo anche per anni, ora basta un’estate per dimenticarlo. Non è però questa la natura dell’arte: nasce per rimanere, altrimenti non è arte.

Giovàri ha ragione: è arte ciò che rimane anche se è molto difficile essere stabili in una società liquida.

Rosa Johanna Pintus


Covid V Scuola tre a zero, perché?

Covid contro Scuola e vince il Covid 19 per tre a zero. Una sconfitta bruciante per i giocatori della Scuola, capitanata dalla Ministra che, in ogni modo, ha cercato di tener duro. Ma la squadra non ha retto agli attacchi degli avversari esterni ed interni: in primis una marea di giocatori indegni che ha implorato fino all’ultimo di chiudere le scuole con toni simili all’ammutinamento del Bounty.

La Ministra, a dire il vero, ci ha messo del suo, offrendo assist decisivi agli autogoal perché incompresa nelle sue performances migliori (una perla in mano ai porci!).

La squadra del Covid guardava incredula ciò che capitava nel campo avversario: l’incapacità del Governo di governare i propri governatori, ad esempio! Il Covid, essendo madrelingua cinese ma volenteroso nell’apprendimento dell’italiano, ha per un momento pensato che governo e governatori, avendo la medesima radice nel nome, fossero concordi; a questo si deve il suo tergiversare estivo, al timore di trovarsi di fronte una sorta di ordinata e coordinata testuggine romana, altrimenti ci avrebbe fatto tutti fuori prima.

Invece di coordinato non c’era proprio nulla: non gli ospedali, privi ancora di percorsi adeguati e di medici specializzati, non le Regioni, non lo Stato, non i Trasporti, non la Scuola.

La Ministra in realtà, con mente geniale e divergente, aveva intuito che uno dei maggiori problemi sarebbe stato quello dei trasporti e avrebbe ovviato al problema con i famosi e criticati banchi a rotelle, ultima ratio-nonostante le buche di Roma e dell’Italia intera- per consentire ai ragazzi un mezzo di trasporto a prova di furto (si sa che fine fanno in Italia monopattini e biciclette).

Ma ha pestato il piede sbagliato perché, mentre lei implorava il Commissario eletto di velocizzare l’acquisto dei suddetti banchi, il Governo intendeva calmare gli animi disillusi e il ventre affamato e scarno degli Italiani con il bonus biciclette, in netta concorrenza con la proposta del banco a rotelle.

Non credendo ai propri occhi per tanto facile bordello e osservando l’accesa sensualità dell’ala destra in campo, impegnata in selfie, formaggette e discoteche, il capitano del Covid 19, pur trovandosi in Sardegna, si è sentito sul Rubicone: “Alea iacta est” ha dichiarato ai prodi e facilmente ha assediato l’italica virtute che si pavoneggiava fiera e bella.

La Ministra, l’unica che, nel delirio di onnipotenza governativo-collettiva, aveva chiara la vision , ha gridato: “Non toccatemi la Scuola!” il Governo però, osservando la mission, e cioè la carenza di insegnanti che ha colpito persino il pargolo del Premier, ha smesso di riconoscerla come caposquadra.

Così, nel marasma totale, il virus si è diffuso e non per i droplet; tre sono stati gli alleati Covid e i traditor di patria: incompetenza, vanità e paura.

Paura non del Covid ma della cultura che avrebbe potuto rivelare in breve come l’incompetenza, in Italia, regni sovrana.

Ecco il senso profondo dell’epurazione dei nuovi sovversivi: le ballerine, gli attori, gli studenti, i prèsidi ispirati, gli insegnanti volenterosi, i nonni.

Ecco il senso profondo della chiusura delle scuole di danza, dei teatri, dei cinema, dei vecchi che sono narrazione di un passato democratico.

Ecco il senso profondo di una Dad forzata per gli adolescenti che hanno diritto all’istruzione, considerato che poi saranno loro a pagare i nostri debiti.

Apriamo le scuole e chiudiamo i parchi! Niente, nessuno mi sente.

E non posso che concludere con le parole del carme che più amo, il Bruto Minore di Leopardi, che esprime i miei pensieri meglio di quanto possa fare io:

In peggio
precipitano i tempi; e mal s’affida
a putridi nepoti
l’onor d’egregie menti e la suprema
de’ miseri vendetta. A me d’intorno
le penne il bruno augello avido roti;
prema la fèra, e il nembo
tratti l’ignota spoglia;
e l’aura il nome e la memoria accoglia
.