Judy Jewiss: whatever it takes!

Romanzo a puntate di R.J.Pintus

Copertina di Game06percy

Judy Jewiss: WHATEVER IT TAKES!

Perché non si perda

il ricordo

di ciò che è stato.

Capitolo 1

Whatever it takes

Judy Jewiss cammina per le strade chiuse della sua città: coi piedi perché in autobus non può salire. L’aria è stinta, fetida, surreale: alcuni poliziotti non più umani multano chi non porta la mascheruola.

La verità è questa, triste e pura, la vita è mostruosamente difficile e si sente sola.

Ma sola non è e lo sa bene la Democratura che spinge ogni giorno restrizioni più forti.

L’incubo, quello che è stato confezionato, venduto e amplificato su mille televisioni è in realtà già da tempo finito: c’è stato il lockdown, poi il ritorno al lavoro e, a dirla tutta, è pure stata in Erasmus. Nonostante il virus.

L’anno scolastico è ricominciato con mille distanziamenti e Dad e Did; si va avanti comunque e la prima parte dell’anno è persino passata lasciando sperare che il peggio sia passato, che sia un lontano e superato ricordo.

Invece non è così anche perché l’anno è caratterizzato improvvisamente da un’ immane tragedia: la congiura contro il Presidente, portata avanti da un piccolo partito invidioso e senza storia, e l’ascesa dell’Uomo dall’Alto Profilo.

Judy Jewiss ricorda bene quei giorni, quel giorno. Era il 13 febbraio e iniziarono i 616 giorni della notte più buia della repubblica italiana: la democratura.

Judy scruta quello sguardo e si sente spacciata. Scrive un messaggio alla sua amica, si vedono al parco.

<<Hai visto?>> dice la prima.

<<Ho visto>> dice la seconda.

Il parco è freddo come febbraio.

<<Spingerà sui vaccini.>> dice la prima.

<<Lo hanno messo per quello. Ci obbligherà tutti.>>

<<Non glielo lasceremo fare.>>

<<Hai sentito che ha detto?

Questa situazione di emergenza senza precedenti impone di imboccare, con decisione e rapidità, una strada di unità e di impegno comune.

Il piano di vaccinazione. Gli scienziati in soli 12 mesi hanno fatto un miracolo: non era mai accaduto che si riuscisse a produrre un nuovo vaccino in meno di un anno. La nostra prima sfida è, ottenutene le quantità sufficienti, distribuirlo rapidamente ed efficientemente.

Abbiamo bisogno di mobilitare tutte le energie su cui possiamo contare, ricorrendo alla protezione civile, alle forze armate, ai tanti volontari. Non dobbiamo limitare le vaccinazioni all’interno di luoghi specifici, spesso ancora non pronti: abbiamo il dovere di renderle possibili in tutte le strutture disponibili, pubbliche e private. Facendo tesoro dell’esperienza fatta con i tamponi che, dopo un ritardo iniziale, sono stati permessi anche al di fuori della ristretta cerchia di ospedali autorizzati. E soprattutto imparando da Paesi che si sono mossi più rapidamente di noi disponendo subito di quantità di vaccini adeguate. La velocità è essenziale non solo per proteggere gli individui e le loro comunità sociali, ma ora anche per ridurre le possibilità che sorgano altre varianti del virus.>>

<<Hai sentito che ha detto? Cedere sovranità>>.

<<Speriamo bene.>>

<<La vedo male.>>

Judy e la sua amica non sanno ancora che si sta profilando una democratura. Pensano che ci sia già stata. Che sia già passata. E’ difficile immaginare qualcosa di peggio del lockdown.

<<Hanno fatto fuori il Presidente perché probabilmente si rifiuta di proseguire il loro gioco.>> dice la prima.

<<Che casino.>> risponde la seconda.

Judy Jewiss non sa quanto durerà questo governo.

Quei 616 giorni sono eterni. E lui dispone ed impone: sembra che tenga l’Italia in mano.

Chi è l’Uomo? Lo sguardo freddo e inflessibile che, come si dice in gergo, fa brutto; la lingua vipera che mette a tacere in pubblico la moglie, i giornalisti e i politici tutti. Accanto a lui due fedelissimi: il primo un vile degno della damnatio memoriae, il secondo un ser bis moderno, riconfermato nonostante il paracetamolo e la vigile attesa, con la sua quota di potere e di malvagità, così pallido da far temere che sia pronto a risucchiarti l’anima.

Judy Jewiss si informa sull’Uomo che, in un lontano 2 giugno del 1992 a.C., era misteriosamente salito su un panfilo a decidere lo sventurato destino dell’Italia e ora il vile affarista governava osannato dall’America e dall’Europa.

Le informazioni sono chiarissime: studio dai Gesuiti e curriculum di tutto rispetto poiché conosce la lingua inglese come quella italiana, e la preferisce persino. L’Uomo aveva lavorato in una banca che gestiva gli investimenti finanziari delle multinazionali e che vantava un antico lignaggio: era stata fondata nel 1869. L’Uomo aveva guidato la più importante banca europea con la celebre frase “Whatever it takes” ovvero “Costi quel che costi”, una sorta di “Credere, obbedire, combattere” finanziario che mandava in brodo di giuggiole i giornalisti dell’italico stivale.

Ser Bis invece aveva un curriculum poco chiaro e più incentrato sulle imprese di un cugino inglese che sulle sue. Si vociferava che provenisse da una famiglia socialista e si era laureato in Scienze Politiche dopo aver studiato in un’università privata. Ser Bis era l’uomo degli ossimori: il suo nome inneggiava al buon augurio e il suo partito alla libertà e all’uguaglianza: Judy Jewiss e l’Uomo, pur partendo da posizioni diversissime, vedevano in lui il capolavoro della dissonanza cognitiva.

Ad ogni modo nell’anno 1 d. C. la scienza si interroga su possibili soluzioni per fermare il massacro di un invincibile virus costruito a tavolino che uccide gli anziani e i fragili soprattutto se finiscono in ospedale e, perla della scienza e della creatività italiana, Giuseppe De Donno trova una soluzione valida e dai costi minimi: il plasma iperimmune.

La scoperta non viene tenuta in considerazione, ci sono già altre soluzioni.

De Donno osa porre delle domande a Ser Bis e è risposta fu pressoché immediata: Giuseppe De Donno muore suicida il 27 luglio 2021.

Invero a questo suicido non crede nessuno e l’ipotesi della sua fine, così inquietante, trova una sorta di conferma negli eventi: ben presto uno studio americano conferma le teorie del medico italiano che è stato condannato a morte da qualcuno.

Chi?

Potessero i morti parlare!

Anche alcuni medici italiani confermano e raccontano il successo di quella cura di cui le televisioni non parlarono se non per irridere e deridere De Donno quando era vivo.

Il fatto però è che nessuno vuole sconfiggere il virus e l’impegno degli Stati è quello di aiutare, e adesso è proprio il caso di dirlo, whatever it takes, le multinazionali del farmaco.

Intanto si contano i primi morti: in Liguria la prima fu Francesca Tuscano, la seconda Camilla Canepa, giovanissima. Il medico che si era occupato di Camilla dichiarò di non aver mai visto una situazione simile:

E’ chiaro che siamo di fronte a qualcosa di non normale.

Il Tempo

La strategia fu quella di accusare una multinazionale favorendo l’altra: i vaccini dell’una facevano male, quelli dell’altra facevano bene.

Gli Italiani erano talmente terrorizzati dal virus da non accorgersi di ciò che avveniva; Judy Jewiss sì perché aveva tre figli e una mente attenta. Le era chiaro che le persone non fossero più le stesse, le era chiaro che il Presidente, quello vero, era stato fatto fuori e che forse era egli stesso una vittima del Sistema. Le era chiaro che la sua vita ormai, come quella di tutti, si divideva in due grandi epoche: a.C. e d.C.; già , C. come Covid, e che tra l’una e l’altra il sole si era spiaccicato a terra come una mela marcia provocando la vittoria delle Tenebre in barba ai Lumi, in barba al Manzoni e alla sua “Storia della colonna infame”.

La situazione andava precipitando, di giorno in giorno venivano poste regole e leggi sempre più assurde confronto alle quali il lockdown, pur nella sua assurdità, era stato una passeggiata. Passata la grande paura e di fronte all’evidenza che il virus non era mortale per tutti, la gente non capiva: un governo burattino guidato da un mostro privo di scrupoli e di cuore aveva dato avvio a una tale propaganda da far impallidire Joseph Goebbels e il clima, per chi non era tratto in inganno, era distopico.

Come ci erano riusciti? Judy Jewiss non riusciva a comprendere come tutto ciò fosse possibile ma guardava gli attori della democratura cercando di valutare gli evidenti nemici.

Chi tra i due era più pericoloso?

L’Uomo noto per la sua intelligenza o il ministro conosciuto per la sua deficienza?

Né l’uno né l’altro: il problema era il popolo, un popolo di pecore feroci ipnotizzate dalla propaganda.

E allora Judy Jewiss si sentì impotente: lei, insegnante di Storia, che aveva per anni spiegato il dramma della Shoah senza capire come potesse un intero popolo tollerare Hitler, capì.

La realtà era impressionante: il Governo non aveva neppure bisogno di assumere una polizia segreta.

Ci pensava il popolo con la sua ferrea e sciocca efficienza.

Da ora in poi lascerò la parola al diario di Judy Jewiss sperando di far cosa gradita a chi vorrà studiare quei 616 giorni di orrore.

FINE PRIMA PUNTATA

Rosa J. Pintus


Fernanda Pivano. Ciao, signora Libertà, ci vediamo.

Ho aspettato oggi, 18 agosto, ricorrenza della tua morte, per pubblicare questo racconto che è la prima versione di un altro, quello pubblicato su “Protagoniste genovesi”, un’antologia che raccoglie biografie di donne genovesi illustri e pubblicata da De Ferraris.

A me fu affidata Fernanda Pivano con la quale avevo un conto in sospeso.

Il racconto pubblicato sul volume citato è diverso perché-come mi fecero notare le colleghe Simonetta Ronco (ideatrice dell’antologia) e Serafina Funaro- l’idea era quella di raccogliere biografie e non interpretazioni. Così “Ciao, signora Libertà, ci vediamo” è diventato “Fernanda Pivano, una donna di parola”, una trattazione lineare e maggiormente aderente alla figura di Fernanda.

Il racconto però c’è. Forse parla più di me più che di lei, dei terribili mesi trascorsi in casa e lontana dal lavoro, misera e sporca No Vax.

Mio Dio! Quanta violenza c’è in me che mi ritengo cristiana? L’odio è più forte di ogni sentimento: l’amore ti azzera, l’odio ti salva.

Sogno ministri appesi a testa in giù.

Il cimitero di Bergamo, il la, e la lunga e geniale teoria di camion militari. E’ buio e mi chiedo perché agiscano nel buio.

La mia cugina bergamasca che piange al telefono.

Ipnosi.

Poi tutto va veloce e io non lo comprendo più.

Ho bevuto dal bicchiere di una mia amica positiva. Pericoloso? Non so; la forza dell’esasperazione e l’avvilimento della disperazione possono molto. 

Ho fatto bene? 

Ho fatto male? 

Sono pazza? 

Forse. 

Ma parliamo di Fernanda che mi parla mentre muoio.

Una bellissima e giovane Fernanda

Ciao, signora Libertà, ci vediamo.

Ti ho conosciuta, Fernanda Pivano, attraverso gli occhi azzurri di Clemente  che era il mio ragazzo e avevamo vent’anni.

Vent’anni.

Tanti, pochi, abbastanza per immaginare un embrione di futuro, una bozza di sogno che seguisse la nostra inclinazione naturale: la scrittura.

Mentre i coetanei passavano la vita in Vico San Bernardo, a bere e a strafare in quel capolavoro di birreria che era il Moretti, ove l’arredamento trasudava storia, noi ci recavamo a Il Panino di Arenzano, lontani dalla folla e indifferenti alla gioia. Passavamo ore intenti a scrivere e a guardare – o meglio scrutare – film, cercando di comprendere la complessità della vita.

Non che non bevessimo, per carità, ma il bere era un accessorio da Bohème,  la ricerca di una svago significante come il suono delle parole belle, e attendevamo, come Nanni Moretti, l’alba sui prati di Pegli dalla parte sbagliata: si esisteva la notte e il giorno era un nulla; la vita era scrittura, carta, inchiostro .

Fu per questo che il vecchio Clem arrivò a fondare una rivista, Poca Luce, e fu in occasione di un’intervista che ti conobbe; si era infatti messo in testa di raccontare il debito che la letteratura italiana aveva nei confronti di quella americana e di come i nostri intellettuali, fossero essi perbenisti cattolici o irreprensibili comunisti, non riuscissero a coglierne la vera essenza:

<<Perché in Italia nessuno osa veramente.>>

<<Io credo invece che sia nostro dovere attingere ai classici e, del resto, ammettilo: che cos’è Spoon River se non un coro menadico?>>

Clemente, cara Fernanda, prima di incontrarti si era inebriato dell’opera omnia di Charles Bukowski che io detestavo ma che tu avevi intervistato nel 1980 quando noi due avevamo sei anni e già scrivevamo. 

L’intervista, quella a Bukowski, fu pubblicata nel 1982 con il titolo Quel che importa è grattarmi sotto le ascelle ma, grazie alla longevità della pagina scritta, potemmo leggerla comodamente anni dopo e discuterne.

A Bukowski io preferivo Hemingway perché era epico e bello, un eroe kalòs kai agathòs a cui, Fernanda, tu dicesti di no, l’unico no di cui ti rammaricasti.

Vedevi in Hemingway un uomo coraggioso ma lui si era accorto che la coraggiosa eri tu.

Apristi gli occhi nel 1917 a Genova, nascendo sotto il segno degli Americani che io tanto detesto, entrati nel conflitto mondiale da poco come una costellazione che illumina il buio.  Nascevi sotto la loro egida e l’Italia, che ancora non aveva visto Caporetto, non sapeva che tutto quel Male avrebbe portato semi di Bene pur solo nell’arte.

Nell’inconsapevolezza dell’infanzia, l’America ti entrò nel sangue pur in una vittoria mutilata.

Furono arbitri, gli Americani, e Woodrow Wilson segnò i quattordici punti che avrebbero dovuto salvare l’Europa e furono tuoi. 

Imparasti l’inglese in famiglia, poi la Scuola Svizzera ove apprendesti il francese e il tedesco, quindi il liceo classico Massimo D’Azeglio a Torino. Il tuo destino fu un professore che non amava se stesso ma che seppe toccare il tuo cuore: Cesare Pavese.

Non amava se stesso mentre tu, allora ragazza, lo amavi; non amava se stesso ma, donna cresciuta, ti amò con dolcezza e senza speranza: le sue lettere ti raggiunsero a Mondovì, poiché lì ti trovavi durante i bombardamenti del 1942, e quel “Lei” indicava un’intima affinità elettiva.

Che scriveva Pavese?

 “E’ il momento in cui lei, se è in gamba, può acchiapparmi e bagnarmi il naso. Basta che lavori, studi, traduca e sforzi la testina. Diventerà celebre, scriverà libri, troverà la cattedra, sarà una luminare della filologia.”

Mi aiuta Ernesto Billò a ricostruire quel periodo, leggo avidamente il suo articolo semplice, intenso e chiaro: non è facile trovare tue notizie biografiche perché sembri ancora viva, ti rendono viva quei video youtube in cui parli e in cui scruti chi ascolta, e le notizie che riguardano la tua vita si ritrovano negli anfratti dei giornali locali, nelle tesi, nei teatri.

Pavese ed Einaudi: che vita! che Fato!

Nel 1943 traducesti, su incarico di Einaudi, Addio alle armi… 

In Italia c’è la guerra civile, non soltanto la guerra mondiale e Torino è occupata dalle truppe naziste. Le SS perquisiscono lo studio di Einaudi: c’è un contratto a tuo nome. I soldati ridono: una donnetta, non ci credono. Il romanzo proibito dal duce può essere stato tradotto solo da un uomo. Girano i tacchi, passi in discesa per le scale. Girano la chiave nell’auto, sono nella tua via, Fernanda!

Salgono. Fermano tuo fratello Franco che li segue.

Hotel Nazionale: è lì che alloggiano.

Piangi, ti disperi, ti vesti di dignità. Decisa, vai a chiarire l’errore.

Hai ventisei anni e un bel volto; guardi i militari negli occhi:

<<Ho tradotto io quel romanzo. Ed è stato un onore.>>

<<Dove si trova Giulio Einaudi?>>

<<Non lo so.>>

Uno alza il tono, gli altri ti circondano di battute volgari che fingi di non capire:

<<Dove si trova Giulio Einaudi?>>

<<Non lo so.>> Il tuo è quasi un sussurro perché provi disgusto, rabbia e vorresti gridare.

Vieni arrestata, ti interrogano a lungo e tu sei stanca, devi fare la pipì, non osi dirlo. Alla fine ti lasciano andare ma ti confiscano i beni: non possiedi più nulla.

Tranne Hemingway che, nel 1948,  incontri a Cortina; ha saputo di te e ti prende per mano:

<<Tell me about the nazi…>>.

E tu tocchi il sole.

Bukowski è invece l’ombra di un gatto persiano ubriaco e così ti dice di Ernest:

<<Hemingway si tenga le sue guerre e il suo coraggio. Io ho altre cose che accadono a me e a tutti quelli intorno a me. Milioni di uomini e donne che impazziscono e vengono assassinati centimetro per centimetro ogni giorno. Quello era il mondo reale. Quella era la morte. Perché capitava a me, lo riconoscevo e troppo spesso qualcuno mi diceva, Bukowski tu sei licenziato.>>

Eppure Bukowski muore di leucemia a settantaquattro anni, Hemingway suicida nel 1961:

<<Morire è una cosa molto semplice. Ho guardato la morte e lo so davvero. Se avessi dovuto morire sarebbe stato molto facile. Proprio la cosa più facile che abbia mai fatto… E come è meglio morire nel periodo felice della giovinezza non ancora disillusa, andarsene in un bagliore di luce, che avere il corpo consunto e vecchio e le illusioni disperse.>>

Da ventenne mi chiedevo come tu potessi essere stata amata da Hemingway, Pavese e Kerouac.

Indubbiamente eri affascinante, una donna eccezionale e insondabile come la balena bianca che avevi così sapientemente donato al pubblico italiano; ero sicura comunque che tu saresti stata in grado di mietere vittime d’amore anche a ottant’anni ed ero punta dalla gelosia per il fatto che tu frequentassi chi amavo.

Non potevo competere con la tua vita avventurosa né con le tue conoscenze: eri la porta di Narnia tra due mondi lontani  mentre io altro non ero che la semplice ragazza di una periferia in cui non passava mai l’1, l’unico autobus che conduceva in centro. 

Tuttavia il 18 agosto del 2009, quando moristi, constatai che era scomparsa una grande donna, una regina che, a differenza delle botulinate star televisive, quelle tigri femministe che utilizzano il corpo e il volto di un passato irrimediabilmente perduto in salotti televisivi politicamente scorretti, non aveva temuto la vecchiaia: alle radici del tuo successo c’era la testa, non l’aspetto.

Eppure in passato eri stata una bella donna, dannatamente bella, aveva detto Kerouac quando ubriaco partecipò a un’intervista della Rai. 

Fernanda, ora ti vedo come una mela raggrinzita ma dolcissima, una cyborg dal busto in acciaio che cela una profondità atlantiche.

L’immagine di te anziana è una figura a tutto tondo creata da ricordi, blog e articoli di giornale e video sul web: le vene stanche per le punture e le terapie ma la testa ancora piena di passioni, di voglia di leggere, di capire.

Sei stata una talent scout nel senso più pieno del termine, in America come in Italia: leggevi e leggevi poesie e romanzi di ragazzi, e tra questi ve n’ era uno, Cento cavalli scotennati, scritto appunto da Clemente e che lui non pubblicò  perché, quando la vita corrisponde alla penna, non è facile metterla in piazza.

O forse il mondo era radicalmente diverso da quello attuale e il voyeurismo era ancora considerato un peccato. 

Scrivere di te, Fernanda, oggi, in questo clima di superficialità estrema, fa male. 

Io credo che tu non accetteresti la banalità in cui siamo piombati: non ci hanno salvati i romanzi, non il cinema e neppure le canzoni ma il tuo Bob Dylan, cara Fernanda, ha vinto il Nobel della letteratura, spiazzando tutti, nel 2016.

Hai vissuto il diritto sospeso, in nome di una non ben precisata sicurezza, e allora mi rifugio nel tuo mondo, coraggiosa ragazza,  laureata in letteratura americana ai tempi del duce, quando il cocktail era una coda di gallo.

Lo sai, Fernanda? C’è un libro che ci accomuna, un libro da cui in qualche modo ha origine la nostra storia di scrittura: la tua, da traduttrice e critica letteraria e la mia, da scrittrice e … insegnante.

Insegnante, sì, e quanto dolore provo nel pronunciare questa parola! 

Ah, sapessi! 

Lascia stare, non adesso. Parliamo del libro: l’Antologia di Spoon River. Ti fu dato da Cesare Pavese in un momento in cui la letteratura italiana era solo retorica di regime.

Versi scarni, privi di pathos epico, un’epopea degli ultimi e la constatazione di morti ingloriose.

La morte. La testimoniano Omero, Virgilio, Christa Wolf dando voce ad  Achille piede rapido, Achille la Bestia:

<<Meglio essere l’ultimo degli uomini che il principe dell’Ade.>>

La poesia di Spoon River canta la vita attraverso la morte in un’America non ancora attanagliata dal conflitto mondiale; tu saresti nata due anni dopo, salutata dall’entrata degli USA nella Grande Guerra, da Lenin che spazza via il feudalesimo dalla Grande Russia.

Edgar Lee Masters sapeva di essere un rivoluzionario? Un inconsapevole Che Guevara seguendo il quale si finisce in carcere? Come avrebbe potuto una cultura totalitaria e patriarcale accettare questo?

E poi, immaginate:

siete una donna ben dotata,

e il solo uomo con cui la morale e la legge

vi consentono un rapporto carnale

è proprio l’uomo che vi riempie di disgusto

ogni volta che ci pensate – e ci pensate

ogni volta che lo vedete. 

Chi era costui che scriveva folli parole? Costui che osava? “Il maschio fascista dispone di giorno e di notte”, recita Sophia Loren nel 1978 diretta da un illuminato Ettore Scola.

Il libro, che tu leggesti in lingua originale,  ti aveva rapito.  Perché? Quanto può essere pericoloso un libro? Le parole minano le fondamenta di un Sistema perché i Sistemi basati sulla forza, sul ricatto e sulla propaganda sono giganti dai piedi d’argilla. Ed eccola qui la corruzione di Edgar, la tua corruzione:

Dove sono Elmer, Herman, Bert, Tom e Charley,

il debole di volontà, il forte di braccia, il buffone, l’ubriacone,

l’attaccabrighe?

Tutti, tutti, dormono sulla collina.

Uno morì di febbre,

uno bruciato in miniera,

uno ucciso in una rissa,

uno morì in prigione,

uno cadde da un ponte mentre faticava per moglie e figli –

tutti, tutti dormono, dormono, dormono sulla collina.

Dove sono Ella, Kate, Mag, Lizzie e Edith,

il cuore tenero, l’anima semplice, la chiassosa, la superba,

l’allegrona? 

Tutte, tutte, dormono sulla collina.

Una morì di parto clandestino,

una di amore contrastato,

una fra le mani di un bruto in un bordello,

una di orgoglio

infranto, inseguendo il desiderio del cuore,

una dopo una vita lontano a Londra e Parigi

fu riportata nel suo piccolo spazio accanto a Ella e Kate e Mag –

tutte, tutte dormono, dormono, dormono sulla collina. 

Mi pare di vederti mentre traduci su foglietti svolazzanti questi epitaffi che ti cambieranno per sempre.

E poi ti immagino intorno a un tavolo con Einaudi e Pavese: concepite l’ idea di intitolare l’opera S.River e una censura non troppo dedita alla lettura consente la pubblicazione dell’opera ritenendola l’agiografia di un santo! 

Chissà quante risate in Via Arcivescovado 7!

Pavese avrà spostato la pipa sull’angolo delle labbra e avrà sorriso dimenticando ogni tristezza: un sorriso alla Mastroianni.

Einaudi non saprei, un giusto, secondo me; rimandato in latino da Augusto Monti, non provò rancore e comprese che il suo professore era un esempio di valore morale e civile, e fu lui a introdurlo nella Confraternita.

I fascisti però se ne accorsero perché lessero, non erano tutti bifolchi, come vuole certa narrativa dell’attuale regime, e quelli erano versi che lasciavano segni profondi.

Tutto sommato è un miracolo che non ti abbiano fatto bere la cicuta.

L’epitaffio di Spoon River che mi donò a me stessa fu invece questo:

Ebbene sì, Emily Sparks, le tue preghiere

non furono disperse, il tuo amore

non fu del tutto vano.

Qualunque cosa io sia stato nella vita

lo devo alla tua speranza che non disperava di me,

al tuo amore che non smise di vedermi buono.

Cara Emily Sparks, lascia che ti racconti la mia storia.

Sorvolo sugli effetti di mio padre e mia madre;

la figlia della modista mi ha messo nei guai

e sono andato in giro per il mondo,

ho attraversato ogni sorta di pericoli,

vino, donne, i piaceri della vita.

Una sera, in una stanza di Rue de Rivoli

stavo bevendo vino con una cocotte dagli occhi neri

e le lacrime mi inondarono gli occhi.

Quella pensò che fossero lacrime d’amore e sorrise

al pensiero di avermi conquistato.

Ma l’anima mia era distante tremila miglia di lì,

nei giorni in cui eri la mia maestra a Spoon River.

E proprio perché non potevi più amarmi

né pregare per me, né scrivermi delle lettere,

in tua vece parlò l’eterno silenzio.

Cesare Pavese trovò quei versi in un quadernetto in casa tua, ti guardò e disse:

<<Ah!>>

Li prese e li portò ad Einaudi e quell’”Ah!” fu una garanzia.

La Storia, e non un qualsiasi astro, determina il destino di una persona.

Eri a cavallo con Hegel? Ti vedo sul cavallo di Hegel a cucire due mondi con un filo d’inchiostro.

La globalizzazione letteraria è l’unica rivoluzione non violenta.

Nel 1956 ti fu restituito il passaporto che il regime ti aveva confiscato e hai potuto viaggiare.

India e America, su di te prevalse la seconda.

Erano i tempi della Beat Generation.

Dopo anni di regime non avresti potuto non amare la Beat, ti ci  immergesti senza esserne travolta: non usasti droghe, non passasti da un letto all’altro per affermare la tua protesta, applicasti il tuo super io vittoriano come strumento di attenta analisi e conoscenza,  modificasti strutturalmente la critica letteraria liberandola da considerazioni estetiche e comprendendo l’inossidabile fusione tra vita e letteratura.

Ah, Fernanda! Il mondo attuale è una prigione di ghiaccio grigio!

Non ci voglio pensare! 

Mi scendono ancora lacrime che bucano il volto. 

E tu? 

Chissà a cosa pensi adesso. Forse non pensi, non so neppure più se credere al materialismo o alla spiritualità e tra i due il primo mi pare il male minore perché annienta la sofferenza.

Stanno accadendo cose che vanno oltre l’umana cattiveria e l’uomo, a cui  tu guardavi con speranza, è diventato quel vile homo oeconomicus preannunciato da John Stuart Mill e temuto da Aldous Leonard Huxley.

L’uomo è perduto.

Tu, vittoriana e beat al tempo stesso, determinata e ribelle, non avresti mai tollerato uno Stato in cui l’insegnamento e il diritto all’istruzione sono nuovamente subordinati a una tessera, non avresti mai immaginato che la Storia  rinnovasse a tal punto i propri vizi e dalla parte antifascista.

Bastardi!

Voglio strapparvi il cuore coi denti, masticarlo e sputarlo mentre i vostri figli gridano e mi odiano! 

Guarda Pavese. Non voleva firmare l’iscrizione al Partito Fascista, lo convinsero madre e sorella. Il rapporto tra Pavese e il fascismo è irrisolto, tu lo sai meglio di altri, quanto ha interferito con la sua morte?

Ci sono firme che uno in coscienza non può fare.

Se non firmi però rinunci al lavoro e stai male. 

Penso alle parole che Hemingway ti scrisse: “Non ti arrabbiare, lavora”; cerco di renderle mie ma non è semplice. Non so neppure se questa biografia sarà pubblicata o se verrà considerata politicamente scorretta; ma posso scrivere della Fernanda di allora mettendo a tacere la me di adesso?

Mio figlio minorenne scappa di casa un giorno sì e l’altro pure: vuole il vaccino per essere uguale agli uguali.

Comando io, lui in silenzio mi condanna.

Pensa che io sia una criminale o una folle? I miei la prima, lui e la piccola la seconda.

Solo la danzatrice mi crede.

Ah! Perché non posso suicidarmi? Come Jacopo Ortis: un suicidio eroico.

Li devo proteggere anche se non mi capiscono.

Non prendo il Covid. La lotta mi vuole guerriera.

 Non sono ancora in carcere, certo, questo no, e ciò mi dà la speranza e l’illusione di poter scrivere liberamente.

Ti saresti arrabbiata a conoscer la mia storia o forse semplicemente stupita? 

Come ti stupisti quando il tuo professore, Federico Oliviero,  ti impedì di proseguire la tesi su Walt Whitman perché riteneva che quei versi poco si addicessero a una signorina perbene.

Il sesso contiene tutto, corpi, anime, significati, prove, purezze, squisitezze, –proclamava Whitman e ciò era inaccettabile in un’Italia in cui persino l’intimità era dettata da rigidi canoni, in cui persino la trasgressione al bordello era controllata dallo Stato – risultati, pronunciamenti, tutte le speranze, beneficenze, conferimenti, tutte le passioni, amori, bellezze, piaceri della terra, tutti i governi, i giudici, gli dei. 

Oppure:

Urrà per coloro che hanno fallito!

E per coloro le cui navi da guerra sono affondate in mare!

E per quegli stessi che sono affondati in mare!

E per tutti i generali che hanno perso le loro battaglie!

E per tutti gli eroi sopraffatti!

E, ancor peggio:

Penso a come una volta giacemmo,

un trasparente mattino d’estate,

come tu posasti la tua testa

di per traverso sul mio fianco

ti voltasti dolcemente verso di me,

e apristi la camicia sul mio petto,

e tuffasti la tua lingua sino al mio cuore snudato,

e ti stendesti sino a sentire la mia barba,

ti stendesti sino a prendere i miei piedi.

Il tuo professore conosceva il poeta, quel suo sguardo franco da druido di versi e d’amore, quei capelli argentei e lunghi, così lontani dalle pettinature di regime.

Chissà, che se lo leggesse di nascosto? Di notte? Che temesse persino di confidarlo al prete?

<<Scabroso. Signorina, questo Whitman è scabroso. Non potete davvero pensare di proporlo in una tesi, se foste un giovanotto si potrebbe capire ma una futura madre …>>.

Lo hai guardato con occhi ironici e segretamente taglienti, hai accettato di analizzare Moby Dick e ne sei rimasta rapita: Call me Ishmael, che incipit meraviglioso! Tre parole ti immergono in Achab, nella sua ossessione distruttiva, nell’attaccamento alla vita di Ishmael. 

Che cosa c’è di più scabroso di Melville?

Io me lo chiedo e anche tu, stremata dal lavoro, con la tua camicia da notte di seta e il tuo carrè bombato, lo hai capito:

<<Ecce homo>>.

E, perché no, ecce America.

Fernanda: una vita d’avventura, una vita da pioniera.

Cerco i suoi tratti nei versi di Cesare Pavese, l’uomo che le spiegava Dante e la incantava negli anni Trenta, l’uomo che lei – negli anni Quaranta – rifiutava.

                               Così trasalisci tu pure

al sussulto del sangue. Tu muovi il capo

come intorno accadesse un prodigio d’aria

e il prodigio sei tu. C’è un sapore uguale

nei tuoi occhi.

Lo scrive Pavese ne L’estate, in Lavorare stanca, e ancora ne Il Notturno:

La collina è notturna, nel cielo chiaro. 

Vi s’inquadra il tuo capo, che muove appena 

e accompagna quel cielo. Sei come una nube 

intravista fra i rami. Ti ride negli occhi 

la stranezza di un cielo che non è il tuo.

[…]

Tu non sei che una nube dolcissima, bianca 

impigliata una notte fra i rami antichi.

Frugo nella tua vita, Fernanda, e spero che tu mi possa perdonare.

Clemente ti ricorda decisa e severa, mi racconta che la tua indagine non faceva sconti alla letteratura italiana: fantasmagorica, psicologica ma priva di affondi nella vita reale.

Ritenevi che gli scrittori italiani si fossero limitati a sostituire all’ipotassi la paratassi ma che, in fin dei conti, non avevano migliorato il panorama letterario il quale continuava ad essere ripetitivo e barocco.

In realtà, Fernanda, pubblicare romanzi è sempre più difficile. Lo sai anche tu, hai dovuto lottare per portare la Beat Generation in Italia. Sai cosa penso? I tempi sono maturi per qualche beatnik europeo: in un’Europa in cui non ci si può muovere, girare in autostop con un sacco a pelo in spalla sarebbe la più grande ribellione. 

Perché, come ti ha detto Kerouac, in autostop si conosce la gente.

Il bisogno di comunicare degli anni Cinquanta è stato sostituito col distanziamento sociale: da due anni i bambini giocano al parco con la mascherina. 

Si ha paura di morire, come se la Morte temesse lo scudo fragile di una mascherina!

Cosa ne penserebbe Neal Cassidy? Quel Neal che già si stupì di te:

<<Tu non bevi, non fumi, non ti droghi; perché mi hai voluto conoscere?>>  e tu rispondevi che volevi conoscere l’energia vitale che scorreva nelle vene di Kerouac.

Tu definisci Kerouac il genio assoluto e disperato, l’uomo che chiede a Dio di mostrargli un luogo. 

<<Era bellissimo: gli occhi blu dipinti di blu e il volto da pittura del ‘300>>.

Racconti le sue tribolazioni, la fatica di pubblicare On the road, romanzo in cui la geografia d’America diviene poesia e la poesia jazz:

È il mondo troppo grande che ci sovrasta, è l’addio. Ma intanto, ci si proietta in avanti verso una nuova, folle avventura sotto il cielo. Perché ci sono troppe cose che mi piacciono e mi confondo e mi perdo a correre da una stella cadente all’altra fino allo sfinimento.

Il conflitto nucleare che temevano i beatnik non c’è stato, la guerra fredda è finita. Tu l’hai vista finire in un muro in frantumi.

Quella guerra fredda.

Ora ce n’è un’altra che vede sulla scacchiera Usa, Russia e Cina.

E in Europa, nella tua Europa che annaspa a fatica, il potere è in mano a organismi transnazionali non europei, e per questo è così difficile combattere:

i nazisti, i fascisti erano di carne ed ossa, qui l’usurpatore è invisibile.

Ci sarà una nuova guerra? Che tipo di guerra? Manca il gas e le centrali a carbone producono energia elettrica.

<<Non si può combattere contro la Russia d’inverno>> ha detto il nostro premier ma i carri armati sono già in Ucraina.

Giulio Casale ti ha raccontata in uno spettacolo dal titolo bellissimo: La canzone di Nanda. 

L’ho guardato e l’ho riguardato con curiosità e con tristezza: Dylan, Tenco e De André sono stati spazzati via da rapper che inneggiano alle Jordan! Vivo in periferia, te l’ho detto, e la più grande ambizione di un giovane è far soldi per ricoprirsi di outfit costosi.

I rapper che mostrano scintillanti denti d’oro sono cattivi ma non sono ribelli: sono drammaticamente allineati e sparano minchiate.

Noi del G8 abbiamo perso: loro vogliono le Jordan e le vogliono anche i miei figli ormai reificati.

Ha vinto il consumismo, non ha vinto la Beat.

Il Sistema ha educato e il Sistema è amato e acclamato. 

E’ rimasto l’amore?

Alessandra Giordano


Frammenti in fiore

Un romanzo particolare in cui compaiono più piani narrativi: l’adolescenza che sorge sui frammenti dell’infanzia, la prima esplorazione del proprio corpo vissuta come colpa negli ambienti borghesi e percepita invece come rituale di gruppo nel sottoproletariato genovese. E la cronaca: una donna accusata di narcotraffico, trascinata nel fango da un marito che odia ma che non può lasciare. Di capitolo in capitolo ci si avvicina a un inferno sempre più netto e che non lascia scampo, l’impressione è quella di un’autrice che conosce fin troppo bene ciò di cui parla, ciò che condanna.


Genoa Western Oresteia

GENOA WESTERN ORESTEIA

romanzo di Alessandra Giordano

recensione di Maria Giunta

Leggere “Genoa Western Oresteia” è come fare un salto nel ‘Quartiere’: viverlo, annusarlo, digerirlo.

Persone, non personaggi. Si respira aria vera, si vivono situazioni, sentimenti, orgogli spenti, desideri, speranze; perché non tutto è perduto.

Un libro vero, diretto, senza giri di parole. Una storia, tante storie che si intrecciano, che camminano insieme e si dividono. Storie di persone che fuggono dal ‘Quartiere’ per poi ritrovarsi più immerse di prima. Storie di persone che, con la speranza di una vita migliore, salgono al nord piene di sogni, che rimangono però imprigionati nelle valigie. Storie di giovani che lì nascono e muoiono; perché il ‘Quartiere’ è un mondo a parte, dove povertà e ignoranza rendono la vita di chiunque un inferno.

Chi decide delle nostre, delle loro vite? Chi decide?

Un libro da leggere.

Recensione di Elisabetta Berselli

In questo romanzo l’autrice descrive il quartiere Cep di Genova scavalcando quasi completamente ogni dimensione puramente descrittiva: l’orrore dell’architettura popolare, l’alienazione del vivere relegati in un ghetto contemporaneo ai margini estremi della periferia, sconosciuto alla “Genova bene” e guardato con sospetto dagli abitanti delle zone limitrofe, sfociano in una rappresentazione tutta interiore, fatta di stati d’animo, comportamenti e scelte costrette e conformate ad una realtà sociale di disagio e sradicamento dalle proprie origini. I personaggi parlano e raccontano se stessi a se stessi, nell’estremo tentativo di conferire significato ad un destino che, agli occhi di chiunque non appartenga al quartiere, non è degno di nota alcuna.

Recensione di Alessandra Versienti

Vita che si fa romanzo, romanzo che si fa vita: è questa la percezione, netta, che si ha scorrendo le pagine del romanzo di Alessandra Giordano. In’ambientazione di feroce bellezza e di degrado umano, di agio sociale e di solitudine morale si muovono i protagonisti, unici nei loro drammi, eppure così umani e vicini, sempre profondamente persone, individui toccati a volte in modo irreparabile dalla violenza e dal dolore.  Il romanzo è un affresco dai colori vividi di una Genova di periferia, battuta dai venti e ingentilita dal sole, una tranche de vie che racconta le creature che popolano quei luoghi e i loro sogni. Lo stile elegante, agile e lieve dell’autrice scivola sapiente sui volti, con tocco amorevole e delicato, e dona dignità di esistere ad ogni personaggio.