Il Genovese: storia di un uomo, atto secondo

Eva Peron e il Genovese

La storia è sempre quella dei vincitori, il Genovese lo sa ma sa anche questo: non esiste Bene e non esiste Male, non esiste il giusto in assoluto e non esiste chi sbaglia e basta.

Si tratta di una realtà triste, difficile da accettare e che spesso si scontra con gli -ismi del Novecento; in questo blog io voglio dare spazio all’uomo, non all’ideologia.

Il Genovese e io corriamo su binari diversi ma lui ha qualcosa in più di me: una storia vissuta in prima persona e che va raccontata. Lo ascolto al telefono e le parole divengono immagini, odori, sapore di Storia.

 

Eva, Evita, era la vera anima di Peron: proveniente dagli strati popolari della popolazione, ella fu la voce degli umili e fu a metà tra Socialismo e Fascismo.  La giustizia sociale per lei non si identificava con la lotta di classe ma con il corporativismo fascista; per questo osservò con attenzione i fascisti italiani in Argentina ed entrò in contatto con il Genovese.

In Bolivia

Avevo sedici anni; la Duarte teneva d’occhio italiani e tedeschi e mi chiamò. Occorreva sostenere Victor Paz Estenssoro che voleva nazionalizzare le miniere di rame in Bolivia.

L’impresa non era facile, su quelle miniere c’erano anche gli interessi degli USA; la situazione era paradossale: socialisti, comunisti e fascisti contro un nemico comune.

In Italia è difficile parlare di Peronismo, lo si identifica troppo spesso col Fascismo, ma in Bolivia l’obiettivo comune era quello di strappare la zona dalle grinfie dell’imperialismo americano. Vi è un saggio molto interessante, di Alfredo Helman-comunista- che racconta agli Italiani l’Argentina di quel periodo.

Helman e il Genovese conobbero Che Guevara, parlarono con lui, dormirono insieme.

Il Genovese mi racconta del Che con malinconia, una persona eccezionale che è diventata il mito di un’unica parte politica.

Non mi racconta di lui, in realtà non mi fa neppure il suo nome ma gli indizi sono evidenti: Bolivia, moto, fuga.

Direzioni diverse, idee differenti ma amicizia sincera.

La fuga

Dovetti lasciare la Bolivia all’improvviso: ci volevano morti, sia comunisti sia peronisti. Scappai con la mia ragazza attraverso la foresta, un luogo selvoso, selvatico e infernale.

Mi trovavo nel bel mezzo di un golpe.

Il muschio, lo sapevo, era a sud; noi dovevamo tenere il sud a sinistra. Avanti,avanti, sempre avanti.

E i GIP dietro, sempre dietro, alle costole.

Il mio amico è in un’altra direzione: ci siamo divisi, non ci possono beccare tutti. E’ buio, c’è un albero, mi viene contro.

No sono io. Buio pesto, paura, rivalsa: scappare veloce col fiato sul collo.

Il fiume.

Il resto del gruppo continua a ovest; non mi fido, seguo il fiume con la mia ragazza.

Spari, urla, morti.

I miei amici sono morti e io guado il fiume.

Famiglia e politica

Il Genovese arriva in Cile, cura il naso e rientra in Argentina. Il tempo passa e Paz Estenssoro patteggia con gli Americani; a tradimento Estenssoro consegna agli avversari i capi fascisti.

Il tempo corre e gli Americani osservano da molto vicino la scacchiera latina: Che Guevara dà fastidio, troppo.

E il potere interessa più di un mito.

Il Genovese incontra, per motivi familiari, il capo della milizia comunista. Discutono ostinati: quest’ultimo sogna la statalizzazione dell’intero apparato economico.

Non mi piaceva, la trovavo da sempre un’idea assurda: il mito di Stakanov non segnava la vittoria di un sistema. Volevo la nazionalizzazione e mi battevo per quest’idea: onori e oneri per i lavoratori, non per lo Stato!

Una delle cause di contrasto era poi il Che:

Lo vogliono morto e lo uccideranno. Vedrai, sarà la stessa sinistra a venderlo alla CIA!

Questi contrasti, queste parole da parte di chi gli era vicino, portarono il Genovese ad abbandonare nuovamente l’Argentina.

In effetti, pur di arrivare al potere, tutti erano disposti a tutto e il Che era soltanto un uomo.

Così tornai in Europa; volevo dedicarmi alla costruzione dell’MSI ma vi erano delle zone d’ombra e io avevo bisogno di capire me stesso. Avevamo tutti contro, avevamo perso la guerra e io avevo perso la testa per una brasiliana bionda e scura.

Andai in Brasile ma ben presto mi resi conto che la passione per la politica bruciava ancora: nel ’52 ero in Liguria. Mi unii ai Figli del Sole, eravamo neofascisti ma facevamo riferimento ai Fasci di Combattimento, non al regime.

Escludevamo il nazismo e il razzismo non ci piaceva.

Fine atto secondo, continua…

Rosa Johanna Pintus

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