La didattica ai tempi del Coronavirus: Dante per il Cpia

Ragazzi, occorre reinventarsi un modo per portare avanti la didattica in questi tempi di Coronavirus, ripassiamo insieme e noi del CPIA Centro Ponente siamo sul pezzo. Del resto voi avete attraversato prove ben più dure e forse questo poeta vi è più vicino di quanto non crediate.

Alcuni di voi hanno già questa lezione su Edmodo, qui vi aggiungo un breve ripasso. Buono studio!

DANTE ALIGHIERI vive tra il 1265 e il 1321, è un poeta ma è anche un uomo che fa politica; quando il suo partito (Dante era un guelfo bianco) viene sconfitto e lui viene accusato dagli avversari politici di corruzione, si trova a scegliere tra la pena di morte e l’esilio. Sceglie l’esilio, si ritiene accusato ingiustamente, ed è costretto a chiedere asilo politico nelle altre città d’Italia.

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Gossip letterario: Dante è innamorato di Beatrice ma non è sposato con lei, sua moglie si chiama Gemma Donati e doveva avere molta pazienza con un marito così!

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Beatrice
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Gemma

Durante l’esilio scrive un poema molto famoso: La divina commedia.

La divina commedia è un poema diviso in tre libri, detti cantiche, ed è il primo poema scritto in lingua italiana.

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Stiamo parlando di un poema scritto più di 700 anni fa, eppure i suoi contenuti e la lingua attraverso la quale vengono raccontati, piacciono ancor oggi.

In effetti sono tre i veri grandi poemi della storia della letteratura, quelli che davvero parlano a tutti: l’Iliade, l’Odissea e La divina commedia.

E perché non ci lasciano indifferenti?

Perché trattano le grandi domande dell’uomo: la lotta, l’amore, l’amicizia, la morte, la speranza.

E Dante come affronta questi argomenti?

Attraverso la poesia. Attraverso la poesia Dante immagina di fare un viaggio attraverso l’Inferno, il Purgatorio e il Paradiso che sono i tre mondi dell’aldilà cristiano.

Nel momento in cui comincia il suo viaggio Dante è stanco, confuso. La narrazione è bellissima ma io devo richiamare qui la tua attenzione su alcuni elementi della frase, in particolare sull’utilizzo dei tempi verbali. Lo so, significa massacrare Dante, chiedo venia (chiedo scusa). Però, siccome sono brava e non sempre cattiva o severa, ecco a te due link per goderti il racconto.

Dante rap anglofoni

Non ho trovato valide traduzioni per le altre lingue…

Nel mezzo del cammin di nostra vita

mi ritrovai per una selva oscura

ché la diritta via era smarrita.

Cosa ci dice Dante?

Avevo circa 35 anni quando, poiché avevo perso la strada giusta, mi ritrovai in una foresta buia.

Nel mezzo del cammin di nostra vita: a 35 anni

ritrovai: passato remoto di ritrovare, indica un’azione conclusa e lontana

selva oscura: foresta buia

smarrire: “perdere”, avevo perso la strada giusta; Dante si trovava in un periodo difficile in cui gli era difficile scegliere tra il Bene e il Male. Smarrirsi: perdersi.

Ahi, quanto a dir qual era è cosa dura

esta selva selvaggia e aspra e forte

che nel pensier rinova la paura

Mi è difficile raccontarvi come era codesto bosco, terribile e spaventoso e, se provo a ricordarmi quest’esperienza, ho di nuovo paura.

selva selvaggia: figura etimologica, nome e aggettivo provengono dalla stessa radice

rinova: rinnova, noi lo scriviamo con due N. Rinnovare in questo caso significa. ” al solo pensarci ho di nuovo paura!”.

Tant’è amara che poco è più morte;

ma per trattar del Ben ch’i’ vi trovai

dirò de l’altre cose ch’i’ v’ho scorte

Io non so ben ridir com’i intrai

tant’era pien di sonno a quel punto

che la verace via abbandonai.

Il ricordo è così spaventoso da essere simile alla morte ma in questo viaggio ho capito che cos’è il Bene e, per farlo capire anche a te, ti parlerò del Male, quello che per noi cristiani è Lucifero o Satana e per voi musulmani è Haràm. Io non ricordo perché mi trovavo lì, ero davvero molto confuso e così triste che avevo perso il senso della vita.

Come vedi tu stesso, continua l’utilizzo del passato remoto per cui, ormai, dovresti aver memorizzato la desinenza della prima persona singolare.

Guarda le parole evidenziate, si tratta di verbi: sono tutti indicativi ma cambia il tempo e, dunque, cambia il messaggio.

Trovai, intrai, abbandonai: passato remoto, azione lontana

Ma quali sono le altre persone? Esistono? Qui a Genova si usano?

Be’, tu intanto imparale.

ENTRARESCORGERESMARRIRE
Io entraiIo scorsiIo smarrii
Tu entrastiTu scorgestiTu smarristi
Egli entròEgli scorseEgli smarrì
Noi entrammoNoi scorgemmoNoi smarrimmo
Voi entrasteVoi scorgesteVoi smarriste
Essi entraronoEssi scorseroEssi smarrirono
   

I più…buffi…sono questi:

ESSEREAVEREFARE
Io fuiIo ebbiIo feci
Tu fostiTu avestiTu facesti
Egli fuEgli ebbeEgli fece
Noi fummoNoi avemmoNoi facemmo
Voi fosteVoi avesteVoi faceste
Essi furonoEssi ebberoEssi fecero

Gli altri verbi che vedi nelle terzine sono questi:

dirò: azione futura

era: imperfetto, azione continuata nel passato.

L’imperfetto, questo sconosciuto

L’imperfetto è semplice da coniugare ma quando si usa?

Mi piacerebbe semplificare e dirti che corrisponde all’inglese I used to ma, purtroppo, non è così.

L’imperfetto è un tempo verbale dei modi indicativo e congiuntivo. E’ una delle due forme di passato più usata nella lingua italiana, insieme al passato prossimo.

L’imperfetto è un tempo verbale del modo indicativo che serve ad esprimere un’azione continuata e prolungata del passato.

Se tu guardi sul sito della grammatica italiana trovi questo, te lo riporto così studi più agevolmente:

  • I verbi in –ARE hanno una A nella parte del verbo che cambia Es: io parl + A + vo
  • I verbi in –ERE hanno una E nella parte del verbo che cambia Es: io prend +E + vo
  • I verbi in –IRE hanno una I nella parte del verbo che cambia Es: io part+ I + vo

Usiamo l’imperfetto per:

  • descrivere una situazione continuativa
    • Il tempo era caldo e umido
  • Fare una descrizione psicologica, parlare di sentimenti ed emozioni
    • Non è venuta alla festa perché era triste
  • Parlare di un’abitudine, di qualcosa che avveniva con regolarità
    • L’estate, da bambino, andavo sempre al mare
  • Dopo la parola “mentre”
    • Mentre camminavo per strada ho incontrato Nicola
  • Parlare di azioni continuate, non limitate nel tempo o non concluse
    • Il mio cane era nella sua cuccia e dormiva tranquillamente
  • Raccontare un sogno
    • Ero in mezzo alla strada, incontravo persone che conoscevo ma che non ricordavo…

Molto spesso in italiano utilizziamo l’imperfetto al posto di altri verbi considerati esatti dall’italiano più formale. Vediamo qualche esempio:

  • Usiamo l’imperfetto al posto del presente indicativo o del condizionale per rendere meno forte una richiesta:
    • Volevo prenotare una camera per due notti ANCHE SE è meglio VORREI prenotare
  • Scegliamo l’imperfetto dell’indicativo al posto del congiuntivo trapassato e del condizionale passato per esprimere un’ipotesi irrealizzabile
    • Se mi chiamavi, ti aspettavo per mangiare (frase corretta: se mi avessi chiamato, ti avrei aspettato per mangiare).

E ora a te!

Esercizio

Esercizio 2

Stasera ti mando le fiere e Virgilio…


Day one: Coronavirus isolation

Today, for us, in Genoa, is the day one. Yesterday I went at church, in San Rocco, and I jocked with the priest about Coronavirus, he said: “Be quiet, we have our corona” and he showed the rosary crown. We laughed, he was a fanny priest from Bergamo. We knew that Lombardia has a big problem, people from Lodi have to stay at home because they have some people with Coronavirus.

My cousin called me, she is from Bergamo, near Milano, and told me that she can’t find coronavirus mask; I tried to buy someone for her but, also in Genoa, there aren’t more.

People, when they want, are really quikly to find what they think is important for life.

I called her: “I didn’t find mask”.

She said: “Don’t warrie, I look Amazon…oh, shit! They are so expensives!”.

“Yeah, it’s true: it’s speculation.”

So I went at home and I thought: “It’s Salvini nemesis: now Italian people are not the first but the last!”

Yesterday evening everything changed quikly: in Liguria every school must be closed. I can’t believe it.

The order start to 00.00 of 24 February, so there is a big problem! Nobody thing to stop the Lega dinner in Genoa, why? 1,500 people for him and nobody think to Coronavirus!

Today I feel myself strange: I used to have my coffee at 7.20 am, to run for the train, to write poems by my mobil, to explain Dante: I was near to speak about Ulisse and tell: “Fatti non foste a viver come bruti”. But now, nothing.

The schools are closed but sport clubs are open. Really, why should we close them? In January and February there is every championschip: football, rugby, dance, swimming. In January and February, who is a mother or father, say all the spots hall and the Coronavirus was already in Italy.

Them my family with other family will wait and will study every symptom.

However it ‘s good to live between our walls, we have some space for us: we speak, we cook, we play together.

Today we made ragù and lasagne, we went to our sports but maybe tomorrow every phisical activities will be prohibited, we don’t know.

Sorry for my english,

goodnight

Rosa J. Pintus


Scandalo a Sanremo? Non in nome del rap!

Sanremo sta per cominciare e la macchina scandalo-audience è partita a tutta velocità; continuerebbe la sua folle corsa ma, ahimé, è stata fermata dal Coronavirus.

Dal Coronavirus, non di certo dai femminicidi che hanno caratterizzato questi ultimi giorni.

No, il femminicidio non ha fermato proprio nessuno, è diventato argomento di …poesia, un dolce stil novo che io odo: arte che non va censurata. Una vocina mi chiede: ma perché Erri De Luca ha rischiato il carcere per molto meno?

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Sanremo è Sanremo: da sempre criticato e da sempre osannato. Carlo Besana lo definisce un rito, una liturgia e non ha torto. Il festival, accanto alle canzonette melodiche, ha ospitato pezzi importanti, di denuncia sociale e il mio ricordo va a Barbarossa che nel 1988 cantava “L’amore rubato“. Ve lo ricordate quel pezzo?

La ragazza non immaginava
che così forte fosse il dolore
passava il vento e lei pregava
che non tornassero quelle parole
adesso muoviti fammi godere
se non ti piace puoi anche gridare
tanto nessuno potrà sentire
tanto nessuno ti potrà salvare
e lei sognava una musica dolce
e labbra morbide da accarezzare
chiari di luna e onde del mare

Era il 1988 e Luca Barbarossa sollevava un problema enorme ma, solo nel 1996 avvenne il miracolo: i reati sessuali, prima considerati semplicemente delitti contro la moralità pubblica e il buon costume, furono finalmente ( legge 15 febbraio 1996 n. 66, norme contro la violenza sessuale) inseriti nel Titolo XII del Codice Penale, “delitti contro la persona”, si riconosceva cioè che la vittima era la donna e non la morale.

Io, nel 1995, considerata causa del mio destino per il semplice fatto che sapevo ballare ed ero carina, provai a denunciare l’argomento in una questura popolata all’epoca da soli uomini; mi guardarono come se fossi una puttana e, a un certo punto, cominciai a dubitare di me stessa.

Me l’ero cercata? Era colpa mia? Certe ragazze non frequentano certi luoghi. Certi luoghi? Diamine! Io ero in una palestra, non ero in certi luoghi degradati. E allora perché non avevo urlato? Vero è che se avessi urlato…ma la verità nuda e cruda è che tu non urli perché ti vergogni da morire, perché ti senti in colpa anche se subisci ma soprattutto perché non riesci a credere che quella cosa stia succedendo proprio a te, ti sembra di vivere la scena di un film e la tua persona diviene altro.

Allora, si era drogata signorina?

Ero tentata di sputare in faccia al poliziotto. Ritirai la denuncia, anzi non terminai proprio di farla. Ricordo che a un certo punto me ne andai; ne parlai, dopo qualche anno, al mio incredulo professore di greco dell’ università, al quale avevo lasciato la mia rielaborazione dell’Ippolito e aveva capito. Fu lui a dirmi che quel libro non poteva restare nel cassetto, che non era giusto, che Artemisia aveva avuto coraggio, che quel libro era la denuncia perfetta. Pubblicai il libro molti anni dopo: ero già un’insegnante di ruolo e, quando mi fu chiesto qualcosa su quel particolare pezzo, raccontai che come insegnante avevo sentito molti racconti da ragazze e madri. Generico, perfetto, sicuramente vigliacco.

Cercai di opporre resistenza, adirata per il precedente schiaffo, in realtà non ero più in grado di amarlo.

Un freddo stridore di metallo accompagna il ricordo.

«Non fare la sciocca Fedra, sei mia moglie».

«Non ora Teseo, non ci riuscirei», il suo volto mutò repentinamente.

«Apri le gambe, donna, aprile», lo sguardo che generò Ippolito fu, dunque, quello? Povera Antiope!

Era folle: il sangue concentrato nelle sfere oculari, la sua virilità, durissima spada, mi trapassava da parte a parte. 

La mia femminilità umiliata, a brandelli.

Allora cominciai a capire cosa intendesse Antiope.

Solitudine.

Se esiste una parola che accomuna le donne prese a forza quella è proprio “solitudine”.

Ho gli occhi ma non vedo. Grido un urlo senza voce.

Io avevo i Greci, potevo sublimare nei classici e potevo parlare di me stessa come se fossi un’altra, e non una qualsiasi, una donna inesistente, una figura mitologica che non esisteva e, se non esisteva, nulla era accaduto.

Nel ’96 quei reati, che prima rientravano nelle fattispecie “violenza carnale” e “atti sessuali” vennero definiti “violenza sessuale” e adesso sono puniti a norma dell’articolo 609 bis del codice penale.

Non che nel ’96 sarebbe cambiato qualcosa in questura, non credo, le donne che denunciano fanno rabbia e danno fastidio, per questo la maggioranza decide di tacere e, alla fine, tacqui anch’io e ci misi una pietra sopra.

Eppure nei romanzi questa cosa usciva prepotentemente ogni volta:

La vedono

Si chiedono quale padre imprudente possa lasciare quella ragazzina da sola.

 La guardano meglio: è senza dubbio la figlia della Mariella che guadagna qualche soldo trascinando i loro padri nella sua stanza e le uova gliele ha date Turiddu; forse per questa volta si è accontentato di guardare le belle gambe.

Il sapore del ricordo è presente come fiele; “è passato, è passato”, Pietro predica, suda e ripiomba in quel mentre. 

 “Vieni accà”, disse Tony, all’epoca suo migliore amico e leader indiscusso del gruppo quindicenne. Ines capì subito che era perduta: non aveva fratelli a cui chiedere vendetta né sapeva chi fosse suo padre. Pietro provò una sensazione di panico e di eccitazione insieme, non si sentiva di opporsi al gruppo, dentro era in preda a un fuoco infernale che lo arroventava, lo avviliva, lo innalzava. In fondo in fondo era suo diritto prendersi Ines, suo padre spendeva i soldi proprio con Mariella e un piccolo risarcimento, loro figli, se lo meritavano. Ines tentò comunque di scappare, più per dovere che per convinzione – del resto sapeva che prima o poi le sarebbe capitato – la distanza le dava un certo vantaggio ma le uova la impedivano nella fuga.

Tony le afferrò i capelli con una mano, lei si voltò con due occhi che erano taggiasche mature e lui le rubò un bacio, poi la lasciò andare tanto per divertirsi ancora un po’ a inseguirla.

Pietro le fu davanti e di lato giunsero proprio quel Pasquale che ora giaceva nella bara, Marcello e Cosimo.

 La presero, tutti e cinque, e sazi la abbandonarono sul bordo della strada.

E ancora:

La condusse in camera e girò la chiave nella toppa, quindi la prese per i capelli, la fece inginocchiare (sta’ ferma, non ti voglio fare alcun male) e condusse il suo volto tra le gambe (o sul lettino della palestra?). Sonia, piangendo (almeno metti il preservativo, almeno quello !- tu sei venuta da me, non ti ho cercato io) in silenzio, eseguì tutto quello che le veniva richiesto in una sorta di trance nella quale tre uomini si sovrapponevano: lui, Elio e Marcello. I bimbi dormivano profondamente mentre lei riceveva schiaffi e insulti sussurrati nel buio (lo vedi? sei una strana bambina e mi ecciti).

Per cui, per tornare al punto di partenza e giusto per necessità di chiarezza, io non sono certo la tipa che si scandalizza per le parole di…Lelly Kelly, ne so usare di peggiori e di più violente; io semplicemente m’incazzo per i contenuti, diffusi senza alcun filtro, a un target di adolescenti da uno pseudoartista che sì, lo ammetto, manderei in carcere a riflettere.

Perché cosa scrive costui?

Robin Hood, deruba ricchi
Malibù, limone a spicchi
Si fanno le storie con quaranta fighe
Ma poi arrivo io quindi tu non ficchi
Dentro al gioco, chiappe strette
Amici rapper, solo marchette
Voglio vedere la vostra faccia sopra i pacchetti delle sigarette
Sì, li ho uccisi tutti quanti io
Sì, li ho uccisi, signor maresciallo
Gliel’ho servita come han fatto loro
Gliel’ho servita sopra a un piatto caldo
Testa alta quando ti parlo
Guardami in faccia quando ti parlo
Mi hanno sfidato, è stata una cazzata
Come quando scopi e ti togli in ritardo
Lei si chiama Gioia, ma beve poi ingoia
Balla mezza nuda, dopo te la da
Si chiama Gioia perchè fa la troia
Sì, per la gioia di mamma e papà

Questa frate non sa cosa dice
Porca troia, quanto cazzo chiacchiera?
L’ho ammazzata, le ho strappato la borsa
C’ho rivestito la mascher
a.

Mi dite che si tratta di rap, addirittura di cliché del rap: eh, poverino, è vissuto in periferia…

Cosa?

Io ci sono vissuta nell’estrema periferia e conosco i ragazzi delle case popolari, il loro modo di pensare.

Non basta provenire dalla periferia per insignirsi del titolo di rapper.
Da noi, nell’estrema periferia genovese, nei palazzoni popolari dai citofoni bruciati e le siringhe abbandonate sugli stipiti degli ascensori, l’unica maschera accettata è quella di pelle, la propria pelle.

Chi non mostra il proprio volto, chi si nasconde e ti scruta senza lasciarsi guardare, è definito pisciazza.

Lì chi solo si azzarda a spingere una donna, viene preso a cinghiate sulla pubblica piazza e manco viene soccorso.

Non dico non vi siano grida e c’è chi picchia le donne ma poi il quartiere o il carcere regolano i conti.

Da noi, nella periferia di Genova, non mancano rappers o trappers ma i testi dei nostri sono bellissimi e raccontano in versi l’io di chi li canta, come nel caso di Tedua che scrive:

Da bimbi pensavamo noi da grandi in cella/ Chi ha il rello in piazza porta gli altri in sella/ Non mi sottovalutare, non sai cosa ho in serbo/Resto fermo no o vedrò generazioni passare tipo il bidello.

O Young Slash in Mamma :

Oggi sono un po’ cambiato/ quello che tu mi hai dato è molto/ più di un tuo sorriso/ Mamma/sei l’unica che mi capisce,/ mamma/ dalle ferite mi guarisce./Cambia/ tutto quando si fallisce:/ ma chi ti preferisce, sai, non ti tradisce mai.

Si tratta di ragazzi giovani che sì, usano le parolacce, il dissing, ma i contenuti parlano di valori profondi, a volte di rabbia verso la società e le istituzioni affinché il malessere sociale divenga un grido d’arte.

Però qui risulto di parte, lo sapete che amo il Cep per cui risulto faziosa. Se ci spostiamo da Genova e andiamo nelle grandi città, i bravi rappers non mancano, in particolare ce n’è uno che reputo geniale: Lowlow; leggete questo testo, si tratta del Sentiero dei nidi di ragno (e già dal titolo si capisce che il ragazzo legge).

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Lowlow

In strada principesse che frugano nei rifiuti
I geni sono tutti rinchiusi nei manicomi
Non siamo più persone, siamo solo polinomi
A Spoon River c’è una lapide con scritti i nostri nomi

Non ho mai avuto un ferro, né una pistola ad acqua
Morirò senza aver mai messo una cravatta
Morirò senza aver mai baciato una
Urlando come un sordo sotto una luna distratta
.

Però conosco un posto che gli altri non sanno
Dopo il bosco nero, il sentiero dei nidi di ragno
Quando i grilli canteranno, gli adulti balleranno insieme
Sopra le ossa dei partigiani seppelliti in mezzo al fango
.

E sarò eternamente grato ai miei ascoltatori
Ma devo dirvi una cosa delle peggiori
Siamo ventenni vomitati dal ventennio Berlusconi
E la musica non vi salverà, salvatevi da soli.

Per inciso, anche Lowlow proviene dalla periferia di Roma ma, a differenza di Junior Kelly, è un artista. Un testo troppo delicato e intellettualoide? Se volete la violenza pura, ma motivata davvero dalla rabbia sociale, ascoltatevi Ulisse:

Ho scelto il male perché il bene era banale
Dio m’ha dato una pistola facile da maneggiare
Forse certa gente la deve pagare
Forse io non ho paura di sparare
E probabilmente non servirà a niente
Lo capisco da solo, mi reputo intelligente
Ma sento queste voci e mi partono queste fisse
Un giorno di vita di Nico, Ulisse

Stai sanguinando stella? Non fai pena a nessuno
Vuoi sapere perché fumo, perché digiuno?
Vuoi vedere il video di un bambino bullizzato online?
Vuoi sapere che pensavano quelli di Columbine?
(Etc.)

Quello di Junior Kelly-Lelly Kelly. invece, non è né rap né, è istigazione a delinquere.
La coraggiosa DS Angela Rosauro, in una lettera a Tutto Scuola, ha affermato, con forza, che il Sistema Istruzione non può tacere di fronte alla presenza in RAI del rapper Junior Cally. La Scuola non può stare a guardare, e soprattutto non può tacere il Miur che invece tace, pur essendo il massimo punto di riferimento per gli studenti, i DS e gli insegnanti.

Del resto un velo impietoso andrebbe calato anche sul mitico Amadeus che, intervistato dai giornalisti, è apparso come uno scolaretto impreparato e privo del necessario lessico di base per rappresentare l’Italia a Sanremo.

A meno che l’Italia non sia diventato proprio questo: un Paese di gente zotica e vil.
Tuttavia anche in questo caso, il peggiore, il mondo della scuola e tutte le istituzioni chiamate a rappresentare e a proteggere la cultura non possono esimersi dal condannare questa scelta: Tucidide ci ricorda che il Male non è soltanto di chi lo fa ma anche di chi, potendolo impedire, non lo impedisce.

Le motivazioni per impedire che il Festival giunga a questa disonorevole deriva sono molteplici, non si tratta soltanto di buon gusto.
In primis la RAI non appare più in grado di scegliere i suoi conduttori e si piega al capriccio di un Amadeus che mira a nascondere la propria inadeguatezza con uno scandalo: il modo più antico per
richiamare audience e per nascondere il fatto- mai metafora è stata più opportuna- che sotto la maschera c’è il nulla.
Se viene sdoganata la cultura dello scandalo, gli adolescenti vi si adegueranno e cercheranno le vie più facili per diventare noti attraverso atti istintivi e lesivi.
Non solo: senza bisogno di scomodare Lelly Kelly, Amadeus è riuscito a delegittimare con un’ unica asserzione, “è bella e sa stare un passo indietro”,anni di faticose lotte per la parità di genere e a legittimare l’atteggiamento sempre più narcisista e prepotente che hanno ormai alcuni teenager nei confronti della “tipa”.

Mettiamo, per quanto possibile, da parte i contenuti dei testi che vi ho proposto, facciamo un discorso meramente artistico, formale: quale dei due rapper presi in esame testo critica l’attuale società in maniera profonda? Quale invece ci resta impresso in quanto disturbante, ma vuoto, e usa una maschera come trampolino per il successo?

Lowlow è un artista, Junior Cally conosce la comunicazione e il marketing.

Sarebbe un ottimo produttore, indubbiamente capace, ma che faccia cantare gli altri!

Ahimé, dobbiamo stare zitti, altrimenti veniamo accusati di censurare l’arte anche se sono la prima, nei miei libri, a non utilizzare perifrasi.

Io non censuro l’arte, critico la non -arte travestita da arte e, come artista, Lelly Kelly è un quacquaraquà, cioè un uomo da niente-come spiega Camilleri-incapace di rispetto.

Siccome però quacquaraquà e populisti vanno per la maggiore, in questo Paese, l’uomo mascherato ha successo e qui si chiude il cerchio.

Intanto i femminicidi sono in ascesa, certo, non è colpa del rapper ma i suoi testi esaltano, e non denunciano, il potere assoluto del maschio sulla femmina; non solo, egli definisce “strega” questa donna che gli suscita sì nobili pensieri. Preferisco la strega di Vasco Rossi che, almeno, sceglie di fare l’amore. Asserire che Cally tira fuori il problema per risolverlo, è come legittimare il gesto di Salvini che ha citofonato nel quartiere Pilastro e io non ci sto.

Quale messaggio passa? Come interpreta questo testo chi lo ascolta e non ha gli strumenti critici per capirlo? Vogliamo dire che ha un significato letterale e uno allegorico?

Oh, allora ci troviamo di fronte a un novello Dante, chapeau!

Vogliamo sottolineare che il ragazzo ha fatto un salto di qualità poiché nel testo in gara ci parla dei migranti e si spaccia per cattocomunista?

No, non facciamoci prendere in giro così.

Vale la pena di ricordare che un adolescente non è un adulto, è piuttosto un bambinone che sta abbandonando l’infanzia e che è alla di “modelli altri”, rispetto a quelli proposti da Scuola e famiglia, che lo aiutino a rapportarsi col gruppo dei pari e, nel contempo, ad affermare il proprio
ruolo di uomo in potenza.
Le femmine invece, adolescenti pure loro ma ancora figlie di una concezione patriarcale che fatica a scomparire in Italia, potrebbero intendere che l’unico modo per emergere in Italia sia non tanto la bellezza
quanto l’ostentazione di questa e l’accompagnarsi a un uomo famoso.
E intanto questo individuo continua a raccogliere visualizzazioni in un capolavoro pubblicitario che non ha eguali.
Mi chiedo, in maniera ingenua, perché certi video non vengano oscurati ma anche perché, l’attrice del video non si sia rifiutata di prestarsi a questo gioco; una ragazzina che entri per la prima volta nel tempodelle mele potrebbe intendere che il sesso sia quello, che sia giusto farsi fare determinate cose dai ragazzi,che tutto sommato lo dice anche Sanremo, che la violenza è amore estremo. Un ragazzino potrebbe ritener
giusto legare, violentare e riprendere una ragazza per poi postarla su Instagram.
Tutto questo grazie a ciò che Amadeus e la RAI definiscono arte.
Aiuto!
Forse è il caso che la RAI faccia un passo indietro e la Scuola faccia un deciso passo avanti altrimenti…speriamo che salvino i nostri ragazzi i “Me contro Te”!

Rosa J.Pintus


La donna uccisa due volte

La donna uccisa due volte, un titolo da film ma non lo è; sono passati diversi mesi dalla stesura di quest’articolo: ho dovuto attendere il consenso della vittima, ho spedito questa narrazione a diversi giornali ma nessuno si è preso la briga di raccontare i fatti descritti in quanto spesso vi sono più modi di interpretare la verità, non per nulla il titolo di quest’articolo era, ab origine, “effetto Rashomon”.
Rashomon, come il film di Akira Kurosawa, perché la verità, in questo caso, è frutto di relazioni transferali.

Solo che una verità, con tanto di testimoni scriventi, è data per certa, l’altra non è neppure considerata se la persona in questione è una donna e, quindi, facilmente isterica se non pazza come Anne Sexton e Sylvia Plath di cui il marito Ted Hughes scrisse:

Lei pianse, implorando conferma, che avessi fiducia in lei.

Del resto, in nome della follia, erano già state diffamate le varie medee, cassandre, antigoni (queste ultime sono quelle che si spezzano ma non si piegano) delle varie epoche storiche; per cui quale scappatoia più semplice per un uomo rispettabilissimo e blasonato…

Quanto sto per narrare è scomodo, antipatico, assurdo e, forse, in alcuni passaggi addirittura pindarico; tuttavia non posso più tacere perché il tempo corre velocemente e raramente medica.

La vicenda, della quale prima non ero autorizzata a parlare, ve la racconto adesso, così per come mi è stata riportata; ed è per il profondo rispetto che nutro nei confronti di chi l’ha vissuta che ho mantenuto il segreto anche con il comitato di cui faccio parte e che ho reso partecipe degli eventi soltanto pochi giorni fa.

Vi sto dunque per descrivere una faccenda spinosa, accaduta in seno a uno dei più chiacchierati concorsi proposti dalla pubblica amministrazione, forse il più discusso degli ultimi tempi; un’amministrazione, quella attuale, che prova a operare secondo criteri di trasparenza, efficacia, efficienza ed economicità ma affida le operazioni a persone talvolta pigre talvolta svogliate talvolta senza scrupoli, la trasparenza viene così inficiata dalla discrezionalità più completa.

Pensate, voi che non siete avvezzi ai concorsoni, a quanto stabilisce la riforma della PA, a quante gride, di manzoniana memoria, sono rimaste inascoltate nell’agire! Per esempio, ai sensi dell’art. 22 della legge 241/90, la cosiddetta legge della trasparenza recita (nel duplice significato del verbo che comprende anche la finzione scenica): al fine di assicurare la trasparenza dell’attività amministrativa e di favorirne lo svolgimento imparziale è riconosciuto a chiunque vi abbia interesse diretto, concreto e attuale per la tutela di situazioni giuridicamente rilevanti il diritto di accesso ai documenti amministrativi.

Ebbene, nonostante le numerose richieste, i famosi atti risultano momentaneamente inaccessibili.

Anche il famoso codice sorgente è inaccessibile così come inaccessibile è la verità su questo specifico impianto concorsuale, su quelli dell’università, su quelli della Sanità: la PA rende le procedure trasparenti ma le commissioni non lo sono affatto!

Per chiarire ai non addetti ai lavori: il concorso di cui stiamo parlando è stato annullato, con sentenza breve, dalle sentenze del TAR n.8655/2019 e n.8670/2019 del 2 luglio 2019.

Ciononostante il Consiglio di Stato ha sospeso l’efficacia della sentenza in nome della ragion di Stato ovvero ciò che può indurre il decisore politico a giustificare un’azione illecita sotto il profilo del diritto internazionale o del diritto interno.

La giustizia amministrativa farà il suo corso attraverso un iter tutt’altro che economico o veloce e prima o poi ci sarà giustizia; qui mi preme puntare il proiettore su un caso limite del suddetto concorso e, pur senza rivelare gli attori di tale vicenda né dirvi di quale concorso si tratti, ecco in breve quanto accaduto in un dato giorno in un determinato orale.

Il verbale che citerò durante il mio racconto è quello originale, desidero però riprendere la mia precedente riflessione:molto si è detto e molto si è taciuto sul concorso, le accuse rivolte alla PA hanno fatto male a tanti però io ritengo che i problemi in questo percorso non siano stati provocati tanto dalla responsabilità della PA quanto dall’assoluto arbitrio delle commissioni, quell’arbitrio che è stato più volte identificato come un semplice fattore di discrezionalità.

Quella che mi accingo a descrivere è la storia di un orale che è stato annullato.

Riporto qui sia il verbale della commissione sia le dichiarazioni della candidata: si tratta di percezioni così distanti sui medesimi accadimenti da lasciare esterrefatti.

Questo caso è un unicum che da subito ha diviso gli animi e di cui nessuno ha ancora parlato ma poiché, in alcune dichiarazioni, ho colto giudizi non rispondenti a verità su questa candidata, è divenuto necessario rispondere, coram populo, a quanti mi hanno chiesto che cosa fosse avvenuto quel giorno a Linda (nome fittizio).

Non do interpretazioni, non è mio compito; semplicemente narro quanto appreso e confido che si possa fare chiarezza sul caso.

Alle ore 11.00 la candidata Linda, nata a e identificata con C.I. n. rilasciata dal Comune in data , o – dopo aver estratto rispettivamente da quattro terne un quesito, uno studio di caso, una prova pratica per la verifica delle conoscenze degli strumenti informatici e delle tecnologie della comunicazione, un testo nella lingua straniera prescelta e dopo essere stata invitata dalla Commissione a leggere il quesito estratto per dare avvio alla prova orale – si è rifiutata di rispondere al quesito estratto ed ha iniziato a parlare di contenuti del tutto difformi dalle materie d’esame di cui all’art. 10 del D.M, n, 138 del 03.08.2017.

Ho domandato a Linda perché si fosse rifiutata di rispondere e lei ha affermato che intanto non erano le ore 11.00, che l’avevano lasciata per ultima e non c’erano colleghi in aula che, in qualità di testimone, vi era solo un suo amico estraneo al concorso.  
Inoltre ha aggiunto: “non mi sono “rifiutata di rispondere al quesito”; in ogni momento ho chiesto loro di parlare; volendo dare una spiegazione etimologica iniziale ho fatto presente la mia formazione di filologa, appunto”.

E in effetti Linda, interrogata sull’alternanza scuola-lavoro, ha cominciato così:  la parola“scuola” deriva dal greco  σχολή che significa tempo libero.

Sarebbe andata avanti se non fosse stata fermata dalla commissione, urtata forse dal richiamo alle vere origini dello studio o, semplicemente, non istruita a gestire una risposta più ampia ed approfondita.

Di fatto le viene impedito di portare avanti la risposta e non sono passati che pochi minuti quando la commissione, senza altre domande, le chiede di andarsene.

Ci tengo a precisarlo: secondo Linda non sono le 11.00, ella insiste sul fatto che la commissione non ha rispettato l’ordine dei candidati e che, a parte il suo amico, non vi erano altri candidati in quell’aula come testimoni del corretto svolgimento del colloquio.

Sul verbale ancora si legge:

La candidata ha camminato avanti e indietro davanti alla Commissione nonostante i ripetuti inviti a sedersi e a iniziare la prova orale, si è inginocchiata per implorare di essere ascoltata sulle sue vicende personali, ha aperto una valigia che ha portato con sé per mostrarne il contenuto alla Commissione, ha raccontato di aver fatto un sogno in cui moriva dopo aver sostenuto la prova orale del concorso.

E anche su questo punto la versione di Linda è differente: Mi sono inginocchiata dopo la minaccia: “se non se ne va chiamiamo i carabinieri”. Ero inoffensiva, volevo solo sostenere il mio orale, non stavo minacciando nessuno ma il mio torto deve essere stato quello di far notare al presidente che non si rivolgeva a una scolaretta ma a una candidata che poteva pretendere una certa autonomia sulla risposta. Desideravo raccontare, dialogare, condividere anni di studio di fronte a volti che mi parevano umani ma il mio richiamo all’autonomia al presidente non è piaciuto e non me l’ha perdonato; allora sì, in quel momento l’ho detta quella frase che mi deve aver fatto considerare pazza: “Forse si sta realizzando il mio incubo: stanotte ho sognato che facevo l’orale e morivo”. E mi è venuto da ridere (non volevo piangere) perché mi pareva di vivere una situazione assurda, surreale, onirica.

Le chiedo quindi perché avesse sentito l’esigenza di aprire la valigia:
Il discorso della valigia era anteriore: essendomi stato chiesto se fossi lì a vendere vestiti ed essendomi stato detto che la mia persona ledeva il decoro del luogo, l’ho aperta rapidamente per mostrare come fosse piena solo di libri! Come faceva a ledere il “decoro di un’università” una valigia piena di libri?

Quindi il verbale non solo falsificherebbe l’orario ma anche l’ordine dei fatti!

Il verbale prosegue:

Preso atto del venir meno delle condizioni per lo svolgimento della prova orale da parte della candidata, il Presidente ha sospeso i lavori della Commissione ed ha chiesto l’intervento del servizio di gestione delle emergenze dell’Università …, affinché venissero poste in essere adeguate misure per invitare la candidata ad allontanarsi e consentire la regolare prosecuzione dei lavori della Commissione per lo svolgimento delle prove orali dei candidati rimanenti, mantenendo sempre un clima sereno ed accogliente.

Il presdente ( scritto proprio così)

Secondo il verbale gli altri candidati avrebbero assistito al colloquio di Linda ma ella sottolinea nuovamente che in aula era presente soltanto un amico poiché era stata interrogata per ultima mentre avrebbe dovuto sostenere l’orale alle undici e alcuni candidati -per motivi non noti- sarebbero stati chiamati prima.

Ho cercato a lungo qualcuno che fosse presente a quell’orale, anche nella pagina facebook dedicata al concorso ma pare che nessuno abbia assistito all’orale di Linda .

Venissero poste in essere adeguate misure per invitare la candidata ad allontanarsi è una frase che, scritta così, dice tutto e niente ma sicuramente lascia percepire un clima diverso da quello descritto dalla commissione.

Linda si sfoga così:

Arrivata in fondo ad un concorso a cui ho immolato gli ultimi nove anni della mia vita, non mi è stato dato modo di rispondere alla domanda dell’orale.

Annullato. Finito, così, PUFF.

All’improvviso sento di non avere più la terra sotto i piedi. 

Ho cominciato a studiare per il concorso nel 2011.

Otto anni, sette ministri e tre figli fa.

Molte sono le domande prive di risposta ma una mi tormenta: è giusto condannare la PA? Per cosa?

Non sarebbe invece meglio ricorrere contro certe commissioni?

Perché, come dicevo all’inizio, ci si ostina a parlare di discrezionalità e non di totale arbitrio?

Linda non è una candidata qualsiasi: è riuscita, dopo la prova scritta e nella piena incertezza del risultato, a direzionare le nostre energie nella realizzazione di un progetto, un esperimento di studio attivo, portato avanti da noi candidati, su quanto avevamo appreso, macinato, digerito, rielaborato; anche in occasione dell’esito della prova scritta, ha cercato di placare gli animi e ha inventato un progetto di sintesi visiva delle nove aree coordinando i sopravvissuti.

E ancora adesso, con lei e molti altri, siamo riusciti a costruire una zona franca in cui non litigare tra promossi e bocciati ma nella quale stiamo collaborando per rendere la normativa accessibile anche agli stakeholders.

La sua capacità di gestione delle organizzazioni complesse, la sua progettualità vulcanica e nel contempo razionale non le sono bastate per superare l’orale: ha impostato l’interrogazione come non avrebbe dovuto osare, ha avuto l’audacia di pretendere di essere ascoltata mentre la commissione non ha avuto neppure il coraggio di bocciarla, le ha annullato la prova per segnalare la diversità, la divergenza di questo strano soggetto.

Dice Linda:

Non ho fatto in tempo a dire una frase che sono stata buttata fuori dall’aula. Mi sono rifiutata di muovermi quando il presidente mi ha detto che mi aveva annullato l’orale. Mi sono rifiutata di muovermi perché sapevo la risposta e volevo solo parlare. Gli addetti alla sicurezza mi hanno trascinata via attraverso il corridoio pieno di croci dell’università privata che ospitava il concorso”.

Come ho anticipato, o in una sorta di effetto Rashomon ci troviamo di fronte a due verità o qualcuno ha mentito e ha danneggiato un altro.

Io non c’ero e non posso dare testimonianza diretta di quanto accaduto ma qualcosa di strano, per giungere all’annullamento e non alla bocciatura, è senz’altro accaduto.

Varrebbe la pena di indagare, guardando negli occhi le persone, e di chiedere seriamente alle varie commissioni se ritengano di aver operato secondo coscienza durante la correzione degli scritti e durante lo svolgimento degli orali.

Varrebbe anche la pena di denunciare per diffamazione coloro che hanno alimentato la voce di una Linda instabile.

Varrebbe la pena! Spero che i candidati abbiano il coraggio di raccontare la propria storia, che qualcuno “dei media importanti” legga quest’articolo e decida di aprire un’inchiesta e su questo caso e sul concorso tutto.

Questa donna, uccisa due volte in quanto diffamata, in questo momento sta combattendo una battaglia più importante ma mi ha consegnato le sue parole e io sono in dovere di dirvele.

Rosa Johanna Pintus


Homo magister et Homo oeconomicus

Scrive Herbert A. Simon: “La teoria economica tradizionale presume coraggiosamente che le persone prendano le loro decisioni in modo da massimizzare la loro utilità. Accettare questa ipotesi consente all’economia di prevedere una grande quantità di comportamenti (in modo corretto o scorretto) senza mai fare studi empirici sugli attori umani.”

Non posso fare a meno di pensare alle sue teorie quando osservo, dalla mia fortunata posizione di bocciata, le sorti dei vincitori di questo concorso e mi chiedo come mi sentirei al loro posto.

Il concorso per il reclutamento dei dirigenti scolastici si è rivelato disumano fin da subito: l’imposizione di conoscere a memoria 4000 test senza, in alcuni casi, comprenderne il significato ha delineato senza ombre la strada che si sarebbe dovuta percorrere per arrivare al traguardo; tuttavia si pensava che i vincitori, dopo aver superato indenni la trappola di Tissaferne (ossia la correzione random della prova scritta) e le terre dei Taochi (la prova orale), avrebbero potuto esultare gridando: “Thalassa! Thalassa”.

Invece non è così: i vincitori al momento stanno peggio dei vinti perché, ancora una volta, contro ogni logica economica, si trovano ad essere numeri in mano a un impietoso algoritmo che non ammette variabili.

Non è la prima volta che accade, già nel 2016 professori e insegnanti si sono trovati a dover fare una scelta radicale.

Quando osservo la logica che ci ha portato all’attuale situazione della Scuola, mi sento protagonista di un esperimento comportamentista atto a valutare in maniera euristica le potenzialità e il grado di adattabilità dell’Homo magister, specie in via d’estinzione (per evidenti cause esogene) soprattutto nell’Italia settentrionale e mi chiedo se l’obiettivo non sia quello di trasformare l’uomo di umani sentimenti in Homo oeconomicus o, se si preferisce un’analogia con Michael Ende, in Grey Gentleman.

Me lo domando ma lo nego perché, per natura, sono portata a credere che l’essere umano agisca in buonafede e non mi resta che affidare le risposte a H. A. Simon; egli dimostra che gli uomini, pur possedendo la ragione, non sono in grado di utilizzarla secondo i parametri economici più convenienti.

In effetti, se una situazione è complessa, non si può perder tempo a considerare tutte le variabili (eventuali figli, legge 104, problemi economici nel trovarsi a pagare sia un mutuo sia un affitto) ma diventa necessario proteggersi con quella che Simon definisce “razionalità limitata” ovvero una ragione che, pur basandosi su calcoli approssimativi o del tutto errati, porta a risultati non ottimali ma comunque soddisfacenti.

E’ il criterio del satisficing.

Solo così mi spiego la logica di un algoritmo che calpesta quei diritti che ciascun lavoratore chiede: la Soluzione Ottimale è stata la regina di questo concorso fin dall’inizio e, fin dall’inizio, ha provocato vittime innocenti: effetti collaterali della pratica più veloce per assumere.

Ma solo adesso, punendo anche i vincitori, mostra il suo vero volto.

Certo, anche i carabinieri sono costretti a spostarsi, ma gli affitti che si trovano a pagare sono ridicoli e, se dirigono l’arma, sono spesati di tutto.

Solo gli insegnanti sono privi di tutele economiche quando vengono costretti a trasferirsi, solo i dirigenti delle nostre scuole si trovano a dover affrontare qualsiasi sacrificio venga loro richiesto (dalla quadrupla reggenza carpiata alla statica impronta digitale).

Il bando, del resto, era chiarissimo: concorso nazionale.

Il tutto sta nella definizione che diamo a quell’aggettivo che fa rima tanto con razionale quanto con casuale.

E la domanda che sorge spontanea è: “Siete coscienti di farci affrontare tutto questo?”

Con solidarietà a chi ha vinto e a chi è stato vinto.

Alessandra Giordano


La Scuola e la periferia: un invito all’ascolto

Sono giorni molto difficili, questi, per la Scuola; un’estate troppo breve per contenere tutte le emozioni, le istanze, le delusioni. Mi volto indietro e riguardo l’anno scolastico, trascorso a studiare, a sperare, a piangere, a rialzarsi e a togliere, inevitabilmente, tempo agli affetti.

Un anno intenso, sicuramente formativo ma che, fino a poche ore fa, pensavo mi avesse lasciato in mano soltanto un pugno di sabbia e un leggero calo scolastico dei miei figli che ho seguito di meno nello studio (rendendoli finalmente autonomi).

Un pugno di sabbia che scivola tra le dita perché non ho vinto ma sono viva e sto recuperando il tempo della famiglia.

Non è andata così per Andrea e Claudia, vincitori stroncati da una morte prematura.

Mi chiedo come abbiano vissuto questi ultimi anni, caratterizzati principalmente da una parola: attesa.

Attesa della preselettiva e degli esiti, della prova scritta e degli esiti, dell’orale e dell’esito, dell’annullamento e dell’eventuale ribaltamento della sentenza.

Li penso; avranno pur letto qualche mio articolo battagliero e si saranno forse arrabbiati; certo l’esito finale, la loro morte improvvisa, non l’avevano immaginato. Si pensa a un Dio, io credo in Dio, ma la domanda “Perché?” resta senza risposta, quasi sussurrata in un silenzio di ghiaccio.

Non è la morte in sé a sconvolgere, nel mio quartiere si muore giovani e consumati, a fine funerale un bell’applauso alla bara nella speranza che il defunto affronti l’Aldilà con la consapevolezza che non ha avuto nell’ Aldiquà.

Sconvolge di più la morte di persone che, per un breve tratto di vita, si sono trovate a percorrere lo stesso sentiero, a condividere i medesimi sogni, ad arrivare-nonostante tutto- al traguardo e a non poter raccogliere il frutto di tanta fatica.

Andrea, sul profilo di FB, sorride e brinda mentre Claudia rivela uno sguardo intenso, caldo, pieno; già dai loro volti si intuisce che sarebbero stati attenti, scrupolosi, a tratti ironici, più presidi che dirigenti.

Non ci sono più e ci inchiodano a quel destino umano che tendiamo a dimenticare: così urliamo, ci azzanniamo come cani pronti a dare il corpo del nemico in pasto agli avvoltoi.

E ieri, mentre girellavo per le vie presa da questi pensieri come solo ai vivi è concesso, ho appreso la notizia dell’arresto di un mio ex alunno:

“Davvero non lo sapeva? E’ successo qualche mese fa.”

“Ma non qui, vero?”

“No, ad XXX, era all’estero”.

Sono abituata agli arresti degli ex alunni, non è il primo e non sarà l’ultimo; crimini infantili che vedono l’utilizzo di pistole giocattolo, crimini irrispettosi, crimini per portar la ragazza a cena fuori in un posto decente, crimini.

Ma ieri non ero proprio in vena di arresti e ho chiuso gli occhi pensando al motivo che più mi spingeva a diventare dirigente: combattere quella dispersione scolastica che miete vittime nel primo biennio delle superiori. perché è lì che si perdono i ragazzi. Il biennio delle superiori in alcuni istituti è un limbo: i professori faticano a tenere le classi, i genitori faticano a gestire gli alunni, i ragazzi-considerati dei miti nei quartieri d’origine- si rendono conto che lì sono nessuno e agiscono la frustrazione con rabbia o, semplicemente, tolgono il disturbo e se ne vanno per strada.

Per questo mi rivolgo ad Andrea e Claudia, perché da lassù illuminino i cuori di quei dirigenti che sono troppo impegnati a difendere la fama di scuole serie e rigorose, a punirne uno per educarne cento.

E mi rivolgo anche ai nuovi dirigenti, specie a quelli che prenderanno servizio nella secondaria di secondo grado: non abbandonate i ragazzi di periferia, piuttosto proponete quei percorsi di apprendistato (e non di ri-orientamento) che li potrebbero davvero aiutare.

Si tratta di una battaglia importante che molti tendono a dimenticare e che gli insegnanti si trovano a combattere da soli: se un ragazzo non viene a scuola, andatelo a cercare.

Devo dare atto che, nel caso di Verona, questo si fa; a Verona i baristi che accolgono minorenni in orario scolastico pagano una multa ma nel resto d’Italia non è così: non è così a Genova. Anzi accade che questa, come tante città d’Italia, si comporti da madre con alcuni ragazzi e da matrigna con altri; si sa, Genova è una città lunga e difficile ove turchino e smeraldo si snodano aristocratici e sereni sulla costa mentre, dalla collina, incombono violenti, come nembi autunnali, pronti a esplodere, i casermoni dei quartieri popolari.

Le scuole superiori e la borghesia cittadina per il momento non se ne curano (ci sono già le scuole di quartiere, i presidi culturali dei ghetti per i quali, però, valgono le regole delle altre scuole e le sovvenzioni diminuiscono di anno in anno) ma, prima o poi, si troveranno fare i conti con questa realtà che preferiscono negare fingendo di non vederla.

Eppure le tessere di un tessuto urbano si intersecano e, se si incontrano, traggono forza le une dalle altre in modo da appianare le differenze; se invece si ignorano o si scontrano, quelle fortificazioni invisibili ma per ora solide, saranno destinate a cadere radendo al suolo tutto.

Chiedo dunque ai nuovi dirigenti di parlare con chi è a disagio perché la parola di un capo d’istituto è più forte di quella di un coordinatore di classe, di trovare soluzioni positive, di spronare i docenti a segnalare le assenze per tempo e non solo quando queste hanno superato il limite consentito; chiedo di non sospendere i ragazzi ma di includerli, di non pretendere che tutti conoscano “il Programma” ma di considerare che, nella nostra penisola, esistono luoghi in cui non valgono le leggi del resto d’Italia.

Se qualche dirigente avesse cercato, parlato, agito -anziché gettare la spugna- forse oggi nelle carceri straniere ci sarebbe un Italiano di meno e a scuola un ragazzo in più.

Alessandra Giordano


Chegue, operazione Pandora-giallo distopico

Chegue è bagnato, disperato, arrabbiato:

<<Dio quanto piove! Pur di non farmi stare al computer, quei due folli mi fanno lavorare sotto l’acqua! Che estate di merda, che estate di merda! Che poi che faccio di male? Gioco a Shadow’s War, come tutto il resto del mondo. Mia madre questa cosa qui non la può proprio capire, sono troppo lontano da lei.

Lei è una guerriera?

No, io sono un guerriero e questa vita mi fa schifo. Il vecchio mi costringe a lavorare, vuole che io faccia una vita uguale alla sua: caffè e partito. Che poi, che democrazia è il Partito? Cambia il nome, cambiano le facce in TV; ci illudiamo di eleggere ma poi vincono sempre Loro. Loro chi? Dice Low Snow. Non lo sa nessuno. La democrazia della mediocrità.>>

L’acqua aumentava, non dava tregua. Chegue si chiese se piovesse anche sopra il ponte, nella Città dei Superi, o se lassù fosse stato eliminato anche questo inconveniente. Ricordava che, quando era bambino, la città aveva un assetto completamente diverso: non c’erano ponti di vetro che inneggiavano alla Trasparenza.

Trasparenza? Una volta aveva visto un film di infima categoria sull’argomento, il concetto però non era malvagio: trasparenza come sinonimo di controllo.

<< Io sono un guerriero, su Shadow’s War e nella vita! Mi ha accusato di razzismo mio padre, solo perché ho tirato un pugno a un negro; il fatto che avesse le mani sul culo della mia compiacente sorella non ha sconvolto i miei, assurdo. Secondo me gli brucia la mia militanza, non il mio debito scolastico.>>.

Chegue lavorava con rabbia e si chiedeva perché gli adulti che lo circondavano fossero così stupidamente distruttivi: lo consideravano un bambino nonostante lui avesse già avuto le sue prime esperienze, lo consideravano un fallito perché non aveva la media del dieci. Lui, figlio di una professoressa in carriera, si era permesso di avere il debito d’italiano!

Nessuno si era posto il problema del perché i suoi temi fossero stringati; gli avevano detto che non sapeva scrivere, che avrebbe dovuto crearsi delle mappe concettuali ma la verità pura e semplice non l’avevano capita: non aveva nulla da dire a quella professoressa! Non che fosse cattiva, era pure carina ma, Chegue questo non poteva proprio accettarlo, era imbelle. Come tutta la sua categoria. I professori si sentivano fortunati perché il Governo pagava loro la casa, i libri, la divisa. Lo stipendio invece serviva per cibo e bollette; i più furbi, come la mamma di Malù, avevano un doppio lavoro. E infatti Malù aveva abiti firmati e se la tirava da artista: Chegue lo odiava e il colore della pelle non c’entrava proprio nulla.

<< Io voglio combattere e voglio ribaltare questo Paese che mi opprime, che si sta spegnendo! E dire che mio padre mi ha infarcito la testa di Avengers ma ora si lamenta! Voglio lo Stato Sociale, lo ammetto! Altro che uguaglianza, comunismo e cristianesimo. Voglio lo Stato Sociale e basta. Ma questo i miei, che mi hanno chiamato addiritture Chegue, non lo possono accettare. Voglio un leader che si veda, un esercito in cui arruolarmi, una terra al sole da coltivare, una donna bella ed obbediente. Il resto è merda! Io sono un guerriero, un figlio del Sole.>>

<<Chegue! Muoviti che ci stiamo scolando, dai; passami quei cartoni!>>.

<<Dove li portiamo?>>.

<<Lì, in magazzino; dai veloce che tu te ne vai a casa! Troppi tuoni, troppi lampi. E quel ponte è sempre più usurato. Sai, mia moglie non lo vuole mai percorrere, le dà ansia! Va’ a casa, non sia mai che abbia ragione!>>.

<<Il ponte è orribile!>> pensa Chegue << Mi chiedo come si possa concepire un’opera del genere! C’è tanta ingiustizia su quel ponte: sopra chi produce, sotto chi non ha nulla; ovviamente noi siamo quelli che stanno di sotto!

Forse non siamo proprio gli ultimi perché, sotto di noi, c’è il ghetto: una città sotterranea, priva di luce solare, in cui l’odore di panni umidi si mischia a quello del vomito dei tossici.>>

Un lampo illumina di mille colori il ponte di vetro che diventa bellissimo, la luce lo percorre come un’onda danzante e lui lo guarda. Poi è di nuovo rabbia: quel ponte va distrutto. Perché lì sotto e nella città sotterranea si sta troppo male.

<<La città sotterranea…ci accompagno ogni tanto Rob che spaccia Fentanyl e MDMA.

Vuole che lo copra, dice che lì ci vive gente poco raccomandabile. Quando gli faccio notare che lo spacciatore è lui, Rob mi rimprovera>>.

<<E’ il MILP che mi ha offerto questo lavoro, sono in regola e anche loro sono in regola! Lo spaccio è cosa antica, se ci fosse stato il Governo Trasparente qualche anno fa, mio padre non sarebbe morto in carcere ma sarebbe stato considerato un imprenditore.>>

<<Ti sei mai chiesto, Rob, perché questo traffico sia legale solo nel ghetto sotterraneo?>>

<<Così dice la legge e io ci guadagno: non mi pongo domande, c’è chi pensa per me e, quando avrò tanti soldi, andrò a vivere sopra il ponte in una casa esposta a sud est, ho bisogno di sole.>>

Chegue si chiede che cosa lo renda amico di Rob, a parte le grandi fighe che rimorchia ogni sabato sera. Eppure, nonostante il fatto che lo ritenga un cretino borioso, spesso si ritrova ad accompagnarlo nella sua singolare attività.

Guarda il ponte, vorrebbe che cadesse, quel mondo precluso ai più, in mille frantumi. Una volta è andato in gita con la scuola nella Città dei Superi, è un posto incredibile e pieno di fontane colorate; le case sono in vetro e, sopra il tetto, hanno giardini ricchi di frutteti. Arrivare lassù è l’obiettivo di chiunque:

<<… anche di mia madre che, da quando il MILP ha bandito il concorso per dirigenti, non fa altro che studiare.

Le dico di lasciar perdere ma lei ritiene che con lo studio si possa conseguire qualsiasi risultato. Lei e mio padre sono convinti, come tanti della loro generazione, di vivere in una democrazia ma non è così.

In effetti, rispetto a quando ero piccolo, in apparenza non è cambiato nulla, a parte la città, ma la sostanza è profondamente diversa: quello che io chiamo Stato è poco più che un distretto; lo ha detto Jam ‘u Tuz, lo you tuber che seguo>>.

Più che un ponte quello che prima o poi cadrà pare un tempio: ordina e dispone.

Ennio entra nel magazzino, io scendo verso il negozio di Sergio, forse ha bisogno di un aiuto.

Entra.

Da quando ha litigato con i suoi, quella per lui è una seconda casa. Sergio non è un semplice rigattiere: recupera mobili in disuso e, a suo modo, li restaura. A suo modo è un artista incapace di dimenticare il mondo in cui è nato: l’Argentina.

Così carteggia, dipinge e lucida seguendo le venature del legno. I mobili riacquistano vita, Chegue lo aiuta, gli cura il sito e impara qualche lavoro utile. I suoi non lo sanno perché Sergio è addirittura peronista mentre i suoi sono di Sinistra. Anche se suo padre si finge inglobato nel Partito, non riesce ad abdicare dalle sue posizioni.

<<La Sinistra, a casa mia, è come la Chiesa: può aver fatto qualsiasi cosa che viene percepita come sacra. In effetti, ultimamente, è addirittura ieratica e la vedo dissolversi in un mosaico privo di dimensioni.

Wow! Che parolone. Con i miei non mi escono, non se lo immaginano neppure che mi piacerebbe fare il critico d’arte: intelligente e maleducato perché me lo potrei permettere data la mediocrità del mondo.

La mediocrità: il vero danno della democrazia è stata la mediocrità. Rob ha ragione: non bisogna permettere a tutti di pensare, certa gente non è in grado di pensare ma è solo capace di eseguire.

Per questo ho scelto I figli del Sole!>>

<<Buongiorno mio giovane camerata!>>

<<Buongiorno Sergio!>>

<<Che ne dici di un caffè caldo?>>

<<Mi ci vuole.>>

<<Allora, sei sempre in punizione?>>

<<Dai, non prendermi in giro! Sono l’unico sfigato che lavora in una giornata simile. Senti, ti aiuto a tirare dentro i mobili.>>

<<Già, da solo sarebbe stato impossibile. Ti sei riappacificato con tuo padre?>>.

<<Mio padre è uno di quelli con la verità in pugno: si può discutere con uno così? Qualsiasi cosa io dica è sbagliata.>>

<<E tua madre?>>.

<<Mia madre studia, si è convinta di poter superare il concorso.>>

<<Be’, la prima parte l’ha passata.>>

<<Se è per questo l’ha passata anche Greta!>>

<<La madre del negro?>>

<<Sì. E’ chiaro per me: si tratta di una finta per illuderli della possibilità di avanzare nella scala sociale ma non sarà così.>>

<<Cosa te lo fa pensare?>>

<<Il cervello>>.

Rosa J.Pintus


Operazione Pandora: Greta, giallo distopico

Greta lavora in un locale notturno…giallo distopico di Rosa Johanna Pintus

Greta li vide mentre Katia le sistemava sulla schiena la cerniera del tubino magenta:

<<Ormai sono sempre qui, qualcuno è innamorato di te.>>

<<O di te, Katia, che balli divinamente.>>

<<Non credo, sono troppo fini per il mio genere.>>

Greta cercò di non ridere, si stava facendo il contorno labbra ed era già in ansia per l’operazione più difficile: le ciglia finte.

<<Katia, ti prego! Non farmi ridere mentre mi trucco, è sleale!>>

<<Lascia stare tesoro! Te le sistemo io. Ma che problema hai con le ciglia?>>

<<Che se mi tolgo gli occhiali non vedo l’attaccatura!>>

<<Non ho mai capito come tu riesca a incantare il pubblico con sguardi ardenti senza vedere nulla!>>

<<Non sono miope, sono astigmatica.>>

<<Dai, andiamo.>>

Dei tre uomini entrati nel locale, pensò Greta, il capo doveva essere quello a sinistra, il più panciuto, con i peli che lottavano per spuntare dai gemelli; portava la fede ma pareva interessato alle avventure, un piccolo vezzo che probabilmente gli era concesso da una moglie già abbastanza soddisfatta dalla posizione economica. Gli altri due erano più giovani di una decina d’anni: quello coi capelli neri, ben rasati ma non eccessivamente corti, aveva un sorriso da squalo mentre l’altro, il biondo, si atteggiava a bel tenebroso con il ciuffo mosso che gli cadeva sugli occhi e l’abbigliamento alla Dick Tracy.

L’uomo dei gemelli estrasse alcuni fogli dalla ventiquattrore e i tre cominciarono a confabulare in maniera concitata; Greta non riusciva a capire se appartenessero al mondo dell’alta finanza o a quello della politica, li temeva per istinto ma se li ritrovava lì ogni sera.

Il padrone la chiamò:

<<Ascolta, Greta, mi hanno chiesto di te.>>

<<Chi?>>

<<Quei tre; portagli un po’ da bere.>>

<<Io non faccio la cameriera, io canto!>>

<<Professoressa, se vuoi mantenere il posto, fai come ti dico perché quelli sono del Ministero e io non voglio casini!>>

<<Di quale ministero?>>

<<Del MILP!>>

Greta non commentò, il MILP era il ministero dell’impiego e del lavoro, braccio destro del Governo della Trasparenza e aveva il potere di innalzarti o ridurti allo stato di paria.

La donna non poteva rinunciare a quel lavoro, le serviva per arrotondare lo stipendio e per poter aiutare suo figlio; il ragazzo, pur senza una figura maschile, era cresciuto con sani principi e, come lei, aveva dimostrato fin da piccolo una forte passione per la musica. Ora, a vent’anni, veniva chiamato a suonare il sax nelle più famose località turistiche, complice del suo successo erano quella chioma saracena e quegli occhi verdi che parevano stregare il mondo. Questi viaggi erano però incompatibili con lo stipendio di Greta, insegnante di musica presso una scuola media, e con lo stipendio del figlio perché un conto è essere famosi, un conto e essere ricchi; così lei aveva continuato a cantare e a farsi pagare in nero da Oscar, padrone del locale.

Nei momenti di sconforto ripercorreva le tappe della sua vita: ragazza- madre con un figlio mulatto in un Paese razzista.

Concepito in un villaggio turistico quando lei aveva diciassette anni, Malù era figlio di un cameriere nigeriano che Greta aveva amato follemente; dopo l’estate i due non si erano più visti perché Samson, non riuscendo ad ottenere il permesso di soggiorno, aveva chiesto asilo politico in un altro Stato.

Greta aveva comunque deciso di tenere il bambino e di utilizzare in modo più commerciale il proprio corpo perché, finché si dà del proprio, tutto è lecito.

Con gli anni la sua vita aveva preso una piega migliore: era riuscita a laurearsi e a superare il concorso per l’insegnamento ma lo stipendio le consentiva di vivacchiare, non di vivere.

Portò i cocktail al tavolo e il biondo le posò subito la mano sulla gamba. Greta si irrigidì ma quello, come se il suo ardire fosse legittimo, le chiese:

<<Cosa mi canti stasera, Greta?>> e la mano salì ad accarezzarle i fianchi.

<<E’ una sorpresa, signore. Se mi lascia, posso andare a prepararmi.>>

<<Ci vediamo dopo,cara.>>

Greta gli sorrise, turbata e infelice.

<<Una bella bambola, non c’è che dire;>> disse l’uomo grasso <<ma credo che ti darà picche.>>

<<Forse stasera sì; tuttavia saprò convincere Oscar in modo adeguato.>>.

<<Lavoriamo ragazzi! La fase uno è conclusa e qui ci sono i nomi dei concorrenti passati: 9000 e ne devono restare 2370 per il settore educativo e 1000 per la Sanità. Idee? Commenti?>>.

Il biondo si tolse gli occhiali da miope e guardò il capo: <<Se togli i posti già assegnati, ne devono restare cinquecento: duecento per la Scuola e trecento per la Sanità.>>

<<E’ vero, Louis; 500. Ma quali?>>

<<Rudolph, hai fatto un ottimo lavoro con quei social, li possiamo osservare da vicino e decidere con calma; basta dare prove abbastanza generiche che possano essere svolte da tutti.>>

<<Bisogna essere scaltri>> disse Louis, il biondo, <<sono persone preparate, se sbagliamo qualcosa se ne accorgono.>>

<<Non mi dire che temi quattro inermi professori! Se anche se ne accorgessero, cosa potrebbero fare?>>

<<Per un aumento stipendiale? Qualsiasi cosa!>>.

Greta cominciò a cantare con quella sua voce morbida e sensuale:

<<Southern trees bear strange fruit
Blood on the leaves and blood at the root >>

<<Assolutamente fantastica>> disse Rudolph <<corpo e voce sono un unicum, vecchio mio!>>.

<<Il jazz è poesia; quella donna poi m’incuriosisce: sembra così sola, così fragile!>>

<<Fragile? Te la immagini così? Quanto sei lontano, amico mio!>> disse l’uomo grasso.

<<Perché? La conosci?>>

<<Se non erro, quella è Greta Hembert, l’insegnante di mio nipote.>>

<<E che ci fa qui?>>

<<Cerca di vivere. Come fanno molti altri.>>

continua…


La metafisica della lingua e la democrazia

La lingua è una questione metafisica?

Ho riflettuto su questo,ultimamente, poiché punzecchiata da insigni docenti per l’uso improprio, a loro dire, del condizionale.

Il casus belli è stato provocato da una lettera pubblicatami da Orizzonte Scuola riguardo il concorso per il reclutamento dei dirigenti scolastici.

Di tale lettera, della quale ho inserito il link per non essere prolissa, mi viene contestato il seguente periodo:
Che il concorso non sia stato trasparente è innegabile: ci sono le prove, ci sono due inchieste dell’Espresso e non credo che professionisti simili scriverebbero il falso.

La risposta immediata della controparte è stata:

Lei non sa usare il congiuntivo.

Mi pareva abbastanza chiara la mia intenzione di sottintendere la protasi se non avessero prove certe, ma evidentemente non è così: la nostra società è fragile, se non vede certezze non le può afferrare e le sinapsi faticano a cogliere ciò che non viene esplicitato.

Però, in questo caso, chi mi ha attaccato, non è uno sprovveduto ma è una persona che sicuramente sa di latino.

Tuttavia io non ci sto a passare per una che non sa il congiuntivo: io adoro il congiuntivo perché, in una società ricca di false certezze, è un modo verbale che esprime incertezza e possibilità.

Secondo l’antagonista quel condizionale è un errore, anzi, un orrore.

Perché?

Come sempre in questi casi mi viene in soccorso Tullio De Mauro che col trattato “L’educazione linguistica democratica” provoca il crollo dell’Accademia della Crusca.

La lingua, secondo De Mauro, è biologicamente flessibile in virtù della sua componente diastratica, diafasica, diamesica.

Però, ed è questo lo spunto interessante del linguista, le classi dominanti hanno interesse a difendere la staticità, l’immobilità della lingua scritta riportata per motivi di sintesi sulle grammatiche.

Non c’è nulla di più facile che ridurre la grammatica a un mero esercizio di potere, a fare segni blu sono capaci anche gli insegnanti meno preparati.

Un insegnante non studia la grammatica, studia il Devoto, il Radice, il De Mauro e fa riferimento alle Dieci Tesi, documento più che mai attuale in una società come la nostra.

Seguire una forma pulita, asettica, morta e limitarsi a riempirla di contenuti non è difficile, è un puro esercizio di esecuzione che ho portato avanti per i cinque anni di liceo classico.

Poi ho scoperto Virginia Woolf e il suo Orlando, James Joyce, Anais Nin e Christa Wolf e mi sono resa conto che la potenza espressiva di una prosa spezzata, strappata, rivoltata è maggiore rispetto a quella di un periodare perfetto.

Certo: bisogna saperla usare, avere gli strumenti per interpretarla ma non tutti li possiedono, neppure nel corpo docenti.

La perfezione della forma è la negazione della letteratura: Verga, Manzoni, lo stesso Camilleri usano una prosa codificata?

Non mi pare: giocano con le parole, danno voce ai personaggi, descrivono-attraverso l’uso consapevole della lingua-gli ambienti.

Infine rispondo alle ultime accuse: quella di esprimermi per pensierini, di non saper interpretare un testo, di essere l’esempio di una classe insegnante mediocre.

Verificare se il compito scritto risponde alla costituzione di un formulario statico è cosa che può ottenersi agevolmente: ciò nasconde la necessità di adeguarsi alla necessità linguistica della classe dominante. Si tratta però di una tendenza all’addestramento monolinguistico che però è arbitraria e deriva dall’esigenza di classificare il tutto.

Questa è una comprensibile e apprezzabile necessità, non la verità.

Il glottodidatta monolinguista lo sa ma tace.

De Mauro usa parole difficili, volutamente provocatorie; critica la tendenza degli insegnanti e dei linguisti a presentare l’ideale platonico della lingua senza sottolinearne le potenzialità espressive e senza analizzarne il contesto sociale.

Mediocri, per conto mio, sono quegli insegnanti che si limitano alla lettura dei manuali o delle antologie.

Mediocri sono quegli insegnanti che spiegano gli autori senza averli mai letti.

Mediocri sono quegli insegnanti che non vedono l’errore come parte di un percorso di apprendimento ma scherniscono gli allievi nelle loro debolezze e li umiliano.

La lingua perfetta tranquillizza i conservatori e i mediocri, la lingua in evoluzione è espressione di democrazia e di ricerca.

La pretesa di una lingua statica, spesso incomprensibile, ha ucciso in questo Paese la democrazia e ha aperto le porte agli slogan semplificati e ha consegnato il Paese ai peggiori populisti.

Rosa Johanna Pintus


La favola dei topi e del formaggio

A Valerio Mancuso con affetto.

Prima di raccontarti la favola dei topi e del formaggio, caro Valerio, voglia tu apprendere in quali circostanze l’ho ascoltata e capirai come le ragioni di un ricorso o di un esposto possano essere valide e giuste.

E anche se la necessità ci conduce ad essere gli uni topi e gli altri gatti, le mosse dei padroni risultano essere dettate dalla casualità e non da un’attenta analisi dei fatti.

Così chi viene coccolato prima, non è raro che cada in disgrazia poi.

Il mio professore di greco era un tipo del tutto singolare: serissimo nello svolgere la materia, ferreo e giusto nei voti, inveiva però contro quella maledetta norma che gli impediva di fumare in classe.

Sicché, ora per sfida ora per impellente necessità, soleva tenere un mozzicone appena spento tra le labbra pregustando l’agognata pausa sigaretta.

Ed era così pregno di nicotina che lo avevamo nominato Baffo Giallo.

Non che questa fosse la sua unica particolarità: amava tradurre ma detestava assegnare i temi perché lì gli studenti divagavano in mille discorsi : preferiva l’aoristo che leniva ogni male.

La sua avversità per la prova scritta d’italiano era manifesta già dai titoli, si variava da “E’ meglio illuminare un angolo buio che una pagoda cinese di cinque piani” a “Spingere una canoa nella melma non è così difficile quanto sembra” fino al più temibile di tutti: “Pizza pazza cerca pizzaiola“.

Fu un titolo che io, quattordicenne con gli occhiali e la faccia da bimba, depressa già dal fatto che le mie compagne avessero le tette ma soprattutto il ragazzino, accolsi con un gran pianto.

Fu lì che capii il valore rassicurante dell’aoristo sigmatico.

Fu in quel caso che Baffo Giallo mi disse: <<Suvvia, signorina, non pianga! La conosce la favola dei topi e del formaggio?>>

E, come insegna Esopo, comincio così:
λέγεται …si narra che due topi molto ingordi avessero visto una pentola piena di latte. Spavaldi e veloci, nonostante il gatto di casa ancora non dormisse ma si facesse coccolare dalla padrona, decisero di agire.

<<Prrrr, prrrr>> godeva il gatto, <<Bello micione>> diceva la padrona beandosi e perdendosi in quel pelo folto e lucido.

Rapidi i due soci riuscirono a spostare il coperchio ma il gatto rizzò la coda in allerta per gli insoliti scricchiolii della cucina.

Quelli, spaventati, facendo leva con il muso, lo fecero cadere e il rumore richiamò il peloso gattone.

<<Mmeeeeo>> disse il gattone, <<Squiiiit>> gridarono i topi terrorizzati, <<Splash!>> fece il latte.

La padrona vedendo tutto a soqquadro redarguì il gatto.

I topi lo sbeffeggiarono e risero perché la donna, sicura e boriosa, accusava il gatto per il coperchio rotto ma non guardava la pentola.

Sazi e satolli per il latte ingurgitato, dopo un po’ i due topi provarono ad uscire dal loro nascondiglio; il volume del latte si era però abbassato sensibilmente e le pareti del pentolone erano lisce.

<<E adesso come facciamo?>> chiese il primo piagnucolando.

<<Nuota, nuota: il dio Topolòn non ci abbandonerà.>> rispose l’altro che da sempre rispettava i sacri riti.

Così, lentamente, il latte si tramutò in formaggio e i due topi poterono uscire con un balzo e portarsi un piccolo pasto a casa.

Ὁ μῦθος δηλοῖ ὅτι (la favola insegna che) nelle circostanze avverse non bisogna perdersi d’animo ma occorre lottare uniti.

Oh be’, Baffo Giallo aveva narrato il tutto in due parole ma oggi questo sarebbe lo svolgimento di quel tema.

Cosa scrissi allora? Non ricordo. Certo è che Baffo Giallo mi ha insegnato a scrivere e di questo gli sono grata.

Rosa Johanna Pintus